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Nelle moderne democrazie parlamentari, fondate sul principio della rappresentanza, lo strumento principale di partecipazione popolare è il voto. I dati sull’affluenza alle urne, però, in occasione delle ultime elezioni politiche italiane mettono in evidenza una crisi di partecipazione legata al fenomeno dell’astensionismo.
Nelle forme di governo parlamentare il voto ed il connesso principio di rappresentanza democratica costituiscono il fondamento e, allo stesso tempo, l’anima del principio di legalità che sorregge e legittima l’esercizio dei pubblici poteri. Lo stato di sofferenza in cui versa l’esercizio del diritto di voto incide dunque sulla legittimazione dei poteri dello Stato che rischia di svuotarsi del suo contenuto sostanziale originario.
Nel momento in cui si constata che, a causa del fenomeno dell’astensionismo, il popolo che vota è sempre meno rappresentativo e che fra coloro che scelgono di non votare si contano numerosissimi elettori di giovane età sorge il dubbio che ad essere irrimediabilmente in crisi sia lo stesso modello di democrazia rappresentativa.
Detta crisi – pur esprimendo un malessere diffuso del popolo rispetto alle istituzioni rappresentative – potrebbe costituire lo stadio intermedio di un percorso evolutivo più ampio che investa, più in generale, il valore della partecipazione alla vita delle istituzioni pubbliche dato che il popolo, non ritrovando negli istituti tradizionali legati al principio della rappresentatività le risposte che cerca, tenderebbe a rinvenirle in altri strumenti di espressione della propria volontà.
In questo percorso, un ruolo fondamentale (di “cerniera”) potrebbe essere assolto – ad avviso di chi scrive – dall’attività di lobbying (nei limiti in cui essa sia intesa come la rappresentazione qualificata di interessi collettivi e diffusi dinanzi le istituzioni).
Infatti, il principio di rappresentanza vive una stagione di declino evidenziata dalla generale sfiducia del corpo elettorale nei confronti dei rappresentanti e dei decisori pubblici nonché, più in particolare, dal tasso di astensione dalle urne costantemente in crescita. Di contro, come detto, si vanno progressivamente rafforzando forme “altre” di partecipazione popolare alla vita delle istituzioni che trovano generale espressione nella cd. e-democracy.
Per quanto, coerentemente con un’impostazione conservatrice, queste forme di partecipazione possano considerarsi prive di giuridica rilevanza e, dunque, ricondotte a espressioni scomposte di opinioni variegate, resta il fatto che esse esistono e pesano non poco sulle scelte anche di chi governa. Se così è, l’atteggiamento “negazionista” rispetto a questi nuovi moduli partecipativi non porterà molto lontano sia perché finirà per acuire le distanze fra governanti e governati (e dunque aggravare lo stato di crisi del modello tradizionale di democrazia) sia perché dovrà fare i conti con una realtà sociale profondamente mutata.
Una soluzione possibile per superare tali limiti può essere rappresentata dal riconoscimento di un ruolo strategico degli stakeholders e, più in generale, dei rappresentanti di interessi collettivi (non solo economici) che hanno titolo ad interloquire e influenzare l’attività dei decisori pubblici.
In tal modo, i vantaggi connessi all’esercizio della e-democracy potranno essere valorizzati alla stregua di fattivi contributi poiché troveranno espressione secondo degli schemi, delle regole predeterminati e per il tramite di portavoce autorizzati e legittimati che possano garantirne una compiuta sintesi.
Le lobbies – a condizione che ricevano adeguata regolamentazione – potrebbero essere investite della raccolta ed elaborazione dei contributi di e-democracy in ragione del ruolo di interlocutore privilegiato delle istituzioni che la legge riconosce loro.
Questa soluzione presuppone, però, che il lobbismo sia fatto oggetto di una compiuta disciplina di rango primario che – oltre ad accogliere le condivisibili soluzioni organizzative che si ritrovano pressoché uniformi in tutte le proposte di legge delle precedenti legislature e in quelle depositate nella attuale legislatura – si sforzi altresì di compiere un passo ulteriore.
Occorre cioè che il legislatore non si faccia carico soltanto del compito di porre delle regole finalizzate ad evitare abusi da parte delle società di lobby ma anche del più complesso problema di affidare alle lobbies il ruolo “sociale” di supporto (soprattutto istruttorio) ai decisori pubblici.
Perché possa realizzarsi un tale salto di qualità nella disciplina del lobbismo occorre inoltre che si compia un radicale cambiamento culturale che spinga tutti gli attori in campo ad accedere ad una visione non negativa delle società di lobby e delle attività che esse svolgono
La strada proposta appare senz’altro percorribile anche grazie alle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale che, con sentenza n. 379 del 2004 (ancora di grandissima attualità), ha riconosciuto che le ragioni di influenza condotte verso i decisori pubblici non sono dirette a «espropriare dei loro poteri gli organi legislativi o ad ostacolare o ritardare l’attività degli organi della pubblica amministrazione, ma mirano a migliorare ed a rendere più trasparenti le procedure di raccordo degli organismi rappresentativi con i soggetti più interessati dalle diverse politiche pubbliche»
In sintesi, se nella prospettiva della rigenerazione democratica le lobbies possono essere chiamate a svolgere un ruolo positivo, questo richiede un mutamento nella percezione diffusa del carattere “problematico” del lobbying: una serie di elementi dimostrano però come questo percorso sia ancora difficile ed anzi alcuni segnali sembrano confermare la “confusione” tra lobbying e corruzione.
Il modello di democrazia rappresentativa, dunque, non è un modello da abbandonare ma da arricchire ed aggiornare. Il voto deve costituire l’ultimo step di un percorso partecipativo democratico che non può più prescindere dalla valorizzazione delle esperienze di e-democracy (spesso informali, istintive e senza regole).
A fronte di questa esigenza si è prospettata l’idea che il compito di filtrare e moderare il contributo bottom-up (espresso in larga misura attraverso la e-democracy) possa essere affidato alle lobbies che influenzano le istituzioni.
L’assolvimento da parte delle società di lobby del suddetto ruolo “sociale” in uno con la implementazione e l’affinamento delle tecniche di partecipazione digitale da parte dei cittadini contribuirebbe a garantire maggiore pluralismo nei processi decisionali delle istituzioni parlamentari e governative; attraverso questo virtuoso processo, seppur gradualmente, potrebbero conseguirsi gli obiettivi di rinvigorimento del principio di rappresentanza e rappresentatività, caposaldo del nostro ordinamento.