contenuto a cura di
Francesco Rossi
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Alessandro Paone, avvocato giuslavorista e Partner di LabLaw Studio Legale, è presidente di Nodus centro studi Economia sociale e Lavoro. Esperto di relazioni sindacali, riorganizzazioni e ristrutturazioni aziendali, assiste società italiane e straniere nella implementazione dei processi di cambiamento organizzativo. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative in materia di diritto del lavoro e relazioni sindacali, da anni è docente e relatore in numerosi corsi ed eventi organizzati ed è responsabile di master di specializzazione nella materia del diritto del lavoro e delle relazioni sindacali per Enti ed Università.

D. Quali sono le principali novità introdotte con il Decreto Lavoro, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 4 maggio?

Parliamo di un mix di norme ed un’elencazione esaustiva non è possibile ma ritengo sicuramente positivo il superamento delle causali “impossibili” introdotte con il decreto dignità, così che oggi l’assunzione a termine oltre i 12 mesi è affidata alle causali della contrattazione collettiva che torna protagonista.

Molto importante anche l’incentivazione ai NEET: non tanto per gli importi in sé, né per la finestra che è limitata al 31 dicembre, ma perché per la prima volta si solleva sul piano normativo il problema dei giovani che non studiano , non lavorano e non cercano lavoro, provando a rintracciare una risposta con risorse vere. Un buon modo di mettere realmente al centro i problemi.

D. Uno dei temi più caldi nel dibattito politico degli ultimi anni è stato il tanto contestato reddito di cittadinanza. Che impatto ha avuto sul sistema economico e sul mercato del lavoro? Cosa cambia con il decreto?

Il reddito di cittadinanza è fallito nel momento in cui ci si è concentrati sulla sua dimensione politica anziché sociale. È stato mal congeniato accavallando due temi agli antipodi quali la povertà e il lavoro. Il reddito non è mai stato, e mai avrebbe potuto essere, uno strumento di politica attiva, ciò nonostante, così lo si è voluto e così si è insistito dovesse essere pur quando era risultato chiaro il suo fallimento tecnico.

Non credo abbia causato, da solo, l’allontanamento delle persone dal lavoro, di certo è stato un fenomeno che ha contribuito, in un momento storico molto complesso, a mettere l’idea stessa del lavoro da parte a favore di altro.

In questo senso la misura dell’assegno di inclusione appare più ordinata, mette al centro dell’intervento economico le persone in stato di bisogno ed a rischio esclusione sociale con l’intento di ricollocarle nella società, e per coloro che sono in condizioni vuol farlo attraverso il lavoro. È un passaggio culturale e comunicativo molto significativo, perché il lavoro deve recupere centralità sul piano dell’etica e della percezione comune.

D. Il punto debole del sistema sono sempre state le politiche attive. Quali nuove strategie vanno messe in campo considerando anche il momento storico e il contesto sociale ed economico in cui si applicano le nuove misure?

Hanno sbagliato tutti in materia, non uno che si salvi. E penso ciò dipenda dalla insistenza con cui si cerca una soluzione nelle strumentazioni senza risolvere i problemi a monte. Occorrono politiche industriali di lungo respiro, nelle quali identificare che Paese vogliamo sia l’Italia e per l’effetto quali professionalità necessitiamo. Fatto questo, il sistema deve orientare formazione e collocazione a livello interterritoriale. E poi vanno superate le separazioni regionali: ad oggi è un reticolato inestricabile in cui ciascuno procede in ordine sparso senza alcuna coerenza. L’eredità raccolta dal Governo è davvero difficile, occorre pazienza, competenza, visione e sostegno da parte di tutte le forze del sistema, senza contrapposizioni inutili.

D. Il ruolo dei sindacati nel percorso di riforme del mercato del lavoro ieri e oggi: perché continua il braccio di ferro con chiunque sieda nell’Esecutivo?

I sindacati stanno sbagliando battaglie, comunicazione e posizionamento, ed anziché animare le piazze attorno all’idea della lotta allontanano le persone. È una deriva pericolosa perché il sindacalismo è, in realtà, una delle leve su cui puntare per lo sviluppo futuro.

In questo momento la categoria soffre la carenza di una normativa di riordino che rende fragili gli assetti contrattuali e la rappresentanza – frammentata, eterogenea, in continua competizione – reduce da anni di scavalcamento di corpi intermedi da parte di una politica che parlando direttamente ai lavoratori ha privato di voce chi per prima raccoglieva quelle istanze e le traduceva in battaglie per i diritti.

La verità è che il sindacato deve compiere uno sforzo immane di ammodernamento ed imparare a dialogare non solo ad ascoltare, esattamente il contrario di quanto dice Landini.

Le persone non comprendono più i riti liturgici del sindacalismo italiano, vogliono rappresentanza di interessi concreti, risposte materiali e assistenza, ma soprattutto vogliono sentir parlare la stessa lingua.

D. La lezione di Biagi, D’Antona e di illuminati giuslavoristi che hanno sacrificato la loro vita per migliorare il mondo del lavoro. Cosa lasciano in eredità?

Da avvocato giuslavorista coinvolto in tanti tavoli di crisi devo a loro la possibilità di svolgere con serenità tecnica il mio mestiere al servizio della legalità. Vi è stato un tempo in cui ciò non è stato possibile e le vicissitudini personali e collettive di questi due grandi uomini ne sono costante testimonianza e monito. È grazie anche a loro se con il sindacato oggi si può lavorare in stretta correlazione anche nelle vicende più drammatiche e dure con lo spirito di trovare soluzioni a tutela delle persone e delle imprese, senza che mai la violenza diventi parte della relazione.

Sul piano tecnico soprattutto il lavoro di Biagi aveva il pregio di fondarsi sulla analisi empirica del mercato del lavoro dell’epoca ed era finalisticamente orientato alla “realizzabilità”, alla concreta utilità, era cioè spurio da ogni ideologia o convenienza politica.

Egli aveva presente i pericoli per l’Italia derivanti dai pregiudizi ideologici verso il cambiamento di una certa politica e di parte del sindacato, irrobustiti nella loro azione dalla paura delle persone rispetto alle fragilità del sistema, più propensi a rincorrere il consenso immediato con l’offerta di nuovi e più limitativi vincoli che non a cambiare le regole in prospettiva futura.

Questo insegnamento vale ancora oggi.