contenuto a cura di
Domenico Giordano
Con la scomparsa del fondatore e leader di Forza Italia ho provato a chiedermi come sia stato vissuto e come sia mutato negli anni dalla Prima alla Seconda Repubblica quella variante di cordoglio che potremmo definire come lutto politico, ovvero quel particolare dolore che appartiene prioritariamente a una comunità politica ben definita.
La morte di Silvio Berlusconi è stata affrontata in modi e da prospettive diversi, però, nessuno, almeno così pare, ha osservato che in qualche modo questa ci scaraventati indietro nel tempo. Un salto nel passato dove i partiti erano di massa, strutture pensanti e pesanti, organismi che filtravano e condizionavano le nostre vite, dalla culla alla bara.
La morte del Cavaliere, fatte le debite proporzioni, ci ha fatto rivivere quel particolare e unico straniamento che avevamo sentito la mattina dell’undici giugno del 1984 quando nelle redazioni arrivò la notizia della morte di Enrico Berlinguer, segretario nazionale del Partito Comunista, e che poi si diffuse rapidamente in tutto il Paese. Lo stesso sentimento di inadeguatezza e di disagio che quattro anni dopo fu invece provato da una diversa comunità politica, quella missina e post-fascista, con la scomparsa il 22 maggio del 1998 di Giorgio Almirante, segretario del Movimento Sociale Italiano. Un uguale straniamento che, per motivi facilmente individuabili, non c’è stato il 9 maggio del 1978 quando in via Caetani a Roma fu ritrovato il cadavere di Aldo Moro, il leader democristiano prima rapito e poi ucciso dalle Brigate Rosse. Oppure, il 19 gennaio del 2000 quando a Hammanet in Tunisia è scomparso l’ex segretario del Partito Socialista, Bettino Craxi.
Certo, quelli erano gli anni in cui con l’ideologia politica, comunista, missina o democristiana, ci si sposava a vita e i partiti erano saldamente il perno insostituibile e costituzionalmente garantito della democrazia repubblicana. La nostra società non era divisa prioritariamente per classi o professioni, ma i compartimenti stagni erano costruiti sulla tessera del partito che ciascuno aveva in tasca. Le leadership erano parimenti frutto di estenuanti accordi e fragili equilibri tra le varie correnti interne ai singoli partiti e trovavano la loro consacrazione nel rito civile del Congresso. Una cerimonia laica che aveva una sua spiritualità oramai del tutto evaporata.
Oggi, all’apposto i partiti sono leggerissimi, strutture fantasma e prive di autorevolezza, disossati di qualunque ideologia di fondo che sappia dare un senso alle inquietudini del presente. Organismi senza spina dorsale, dotati unicamente di porte girevoli dove entrare per una fuitina e poi uscirsene in tutta fretta e dove il leader trova la sua legittimazione nella valanga milionaria di like e follower.
Eppure, nonostante questa distanza siderale che separa quel mondo e quei partiti, di cui non rimangono neanche le sigle da quelli contemporanei, c’è una similitudine evidente tra la morte di Berlusconi e quella dei leader di un tempo. La morte di Silvio, volutamente senza il cognome a dimostrazione di come la disintermediazione abbia reso autonomo il nome proprio dei politici, come la morte degli Almirante o dei Berlinguer ha sancito la morte di un’ideologia e di una visione del mondo che si identificava e si legittimava con e in quelle leadership.
Solo che con Berlinguer e Almirante sono morte delle interpretazioni militanti dell’essere comunista e missino, ma i loro partiti pur con evidenti difficoltà sono andati avanti e il lutto politico era essenzialmente un dolore personale, invece con Silvio rischia di scomparire anche la sua creatura politica. È questo il destino che accomuna tutti i partiti iperleaderizzati, come è per l’appunto Forza Italia, e il lutto politico si trasforma irrimediabilmente in un lutto partitico.