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Ogni persona, ad un certo punto della propria esistenza, incontra qualcuno o qualcosa capace di incidere un profondo solco tra il prima ed il dopo, tra quel che era e quel che sarà; il mio incontro, risalente a circa 10 anni fa, è stato con 220 pagine scritte fitte fitte, un titolo “Fine pena ora” ed un autore, il Giudice Elvio Fassone.
É il 1985 quando a Torino si celebra un maxiprocesso alla mafia catanese; il processo, che dura quasi due anni, vede tra le fila dei condannati all’ergastolo tale giovanissimo Salvatore, uno dei capi, con il quale il presidente della Corte d’Assise, durante le infinite udienze, stabilisce un rapporto di rispetto e quasi –uso questo sostantivo consapevole che potrà sembrare inappropriato– di fiducia. Il giorno successivo alla sentenza il Giudice si scopre a ripensare a quei due anni di processo, a quel giovane uomo, a quella condanna, risente la voce di Salvatore che gli ricorda: «se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia». e decide di scrivergli, di inviargli un libro. Seguono 26 anni di fitta corrispondenza, di scambi -“caro Giudice” – “caro Salvatore”-, di confidenze, di complicità, di speranze e sconforto condivisi. Quello che muove la mano di Fassone, ciò che lo spinge ad afferrare la penna e scrivere ad un assassino, non è pentimento per la condanna, peraltro durissima, inflitta, né solidarietà, ma umanità, la pietas di non abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere il resto della sua vita. La legge è stata applicata in tutta la sua durezza, ma questo non impedisce al Giudice, o forse è proprio questo ennesimo “fine pena mai” a muovere più o meno consapevolmente il suo interesse in tal senso, di interrogarsi sul senso della pena, domande e riflessioni alimentate, come un fuoco, dal confronto continuo con un ergastolano. Fassone, con il trascorrere del tempo, viene eletto al CSM, diventa senatore fino a quando, dopo una lunga carriera, decide esser arrivato il momento di ritirarsi, di godersi affetti e passioni, di andare in pensione, ma mai, in tutto questo suo divenire, ha cessato di interrogarsi sul problema del carcere e della pena. “Fine pena ora” non è un trattato sulle carceri, non narra tesi e non propone soluzioni. É un’opera che scuote e commuove, che chiede, riga dopo riga, nello scambio continuo tra Giudice e Condannato, ma senza mai palesare la domanda, come sia possibile conciliare la necessità di sicurezza sociale e la detenzione a vita con il dettato costituzionale del valore riabilitativo della pena, senza dimenticare l’attenzione al percorso umano di qualsiasi detenuto.
In questi giorni in cui uno dietro l’altro si stanno susseguendo agghiaccianti fatti di cronaca che coinvolgono peraltro soggetti sempre più giovani, io, che ragiono secondo la morale di “Fine pena ora” di cui condivido sentimento ed interrogativi, mi trovo catapultata in una Itaca contemporanea in cui valori culturali ed etici sembrano, e molto probabilmente sono, così lontani dal bilanciamento che caratterizza la nostra giurisprudenza tra punizione e riabilitazione, tra pena e tutela dei diritti fondamentali dei condannati.
Leggo e ascolto persone indignate dalla possibilità di chiunque di esser assistito e difeso nelle aule dei Tribunali, offese e minacce agli avvocati ed ai consulenti degli imputati di reati gravi, gente che urla, spesso da dietro uno schermo, “mettiamolo/a dentro e buttiamo la chiave!” altra che invoca a gran voce la pena di morte. Leggo i dati, le statistiche e scopro che il 43% degli italiani si dice favorevole alla reintroduzione nel nostro Paese della pena di morte (l’uccisione del reo, quella inflitta, per capirci, da Ulisse ai proci); scopro inoltre, non senza un brivido lungo la schiena, che la maggior parte dei sostenitori di questo ideale di giustizia ha un’età compresa tra i 18 ed i 34 anni, giovani uomini e donne che vedono in questa soluzione non solo un’azione deterrente che scoraggerebbe le persone a commettere i reati ma anche la giusta punizione, “quello che tizio si merita!”. Per quanto concerne l’azione deterrente diverse ricerche, al contrario di quanto sostenuto dal 43% sopra menzionato, dimostrano l’infondatezza di tale assunto: recenti studi hanno infatti provato che all’abolizione della pena capitale non è mai seguito un aumento dei crimini violenti in tutti gli Stati che hanno preso questa decisione. Al contrario, è stato dimostrato che più esecuzioni non hanno alterato il tasso di omicidi in questi Paesi.
Di certo pensare alla pena di morte quale soluzione di parte dei mali della nostra società significa distogliere, com’era nell’Antica Grecia, interesse e attenzione da quello che invece è il vero elemento fondamentale della questione, l’uomo, considerato secondo i principi illuministici, umanitari e liberali che, sono fortemente convinta, costituiscono, sotto il profilo morale e sociale, un balzo avanti rispetto ai principi su cui si è lungamente basata la “legge del taglione”. Una visione, un approccio “umanistico” che mette al primo posto la dignità della persona, di qualsiasi persona, che non può mai essere svalorizzata, snaturata o alienata nemmeno dal peggior male che l’uomo, singolo o associato, possa compiere. L’errore e il crimine visti e considerati come agiti che indeboliscono e deturpano la personalità dell’individuo, ma non la negano, non la distruggono, non la declassano e leggi e punizioni che hanno senso se operano in funzione dell’affermazione, dello sviluppo e del recupero della dignità di ogni persona. ” Di fronte alla delinquenza e al crimine, è necessario reagire, opponendosi al male, senza peraltro compiere altri mali e altre violenze” e in quest’ottica la punizione non si pone quale obiettivo quello di umiliare, mortificare, isolare il colpevole, ma di far crescere la sua umiltà, l’umanità, il suo sentire sociale, la sua intelligenza emotivo – relazionale, l’empatia in una contemporanea presa di coscienza di quanto fatto, del dolore arrecato, Un’applicazione morale della pena, quindi, non può prevedere la tortura – né fisica né psicologica – del delinquente, “ma deve promuove una sorta di ascesi personale, faticosa e continua; non ordina di soffocare il reo nell’odio e nell’angoscia, ma vuole che in lui rinasca l’amore per la vita” e la speranza di una nuova dignità e riabilitazione responsabile. Di fatto però detenzione e riabilitazione son, per loro natura, interventi tardivi, successivi ad azioni penalmente rilevanti; forse ciò di cui avremmo maggiore necessità è un’opera educativa della coscienza individuale e sociale, incominciando dall’infanzia sino alla maturità. Un impegno didattico e pedagogico di tutta la comunità coesa che rimetta al centro l’uomo in ogni ambito ed in ogni contesto, il rispetto per lo stesso, rispetto che prescinde e deve prescindere dal suo essere fallace, dal suo essere “peccatore” -se mi concedete l’uso di un termine che poco mi appartiene ma ben rende l’immagine- ed il suo potenziale di crescita e miglioramento.
Di certo a forcaioli e populisti giustizialisti consiglio un passaggio sulle righe di “fine pena ora”. Forse non accadrà nulla, forse, come credo, potrebbero trovare spunti per una riflessione illuminata su una tematica tanto complessa e delicata da non poter esser liquidata con un “butta la chiave e fallo marcire lì dentro” nella speranza che, in tema di giustizia, si possa proseguire e cementare quel cammino in direzione “Uomo” che ci porta, questa volta, lontano dal mito di Itaca.