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Valentina Marsella
Lo aveva già capito Niccolò Machiavelli nel lontanissimo 1513 quando scrisse ‘Il Principe’: la politica non deve inseguire insegnamenti morali e religiosi che non hanno alcuna possibilità di essere messi in pratica. Eppure, la moralità è il vessillo buono per tutte le stagioni. Chi non ricorda le promesse di pulizia morale sventolate dai paladini della politica del popolo? Il Movimento 5 Stelle, attaccando il sistema che avrebbero dovuto aprire come una scatoletta di tonno ha finito per diventare la scatola da aprire; e l’avvocato del popolo si è poi trasformato nell’avvocato di sé stesso. Non solo. Sono ormai all’ordine del giorno le schermaglie politiche tra partiti che agitano avvisi di garanzia, inchieste e onte degli avversari diventando giudici dalla doppia morale: giustizialisti con gli antagonisti e ultra garantisti con i compagni di partito.
E che dire del popolo il cui consenso fa dei giri immensi per poi tornare al punto di partenza. Il termine ‘machiavellico’, del resto è intriso di connotazioni negative, seppure la sua idea di Principe sia quella di un eroe della politica capace di fondare uno Stato nuovo. Un eroe pronto a usare la violenza quando necessario, in cerca del consenso del popolo, impegnato a fare buone leggi. Un uomo con la forza del leone e l’astuzia della volpe, in apparenza morale e religioso per non offendere i sentimenti comuni ma pronto a usare ogni mezzo per salvare la comunità politica. Di qui la celebre affermazione “il fine giustifica i mezzi”.
Machiavelli, spesso accusato di essere cinico, fu un grande osservatore della natura umana. È stato il primo grande pensatore politico libero, tanto da essere condannato all’esilio forzato. Scrisse infatti ‘Il Principe’ quando venne allontanato da Firenze al ritorno dei Medici. Il titolo originale del celebre saggio è De Principatibus, “Sui principati”, nel quale l’autore racchiude le esperienze vissute durante gli anni trascorsi in politica. Anche se oggi è uno dei trattati di scienza politica più famosi, a suo tempo non fu ben accolto: si pubblicò cinque anni dopo la morte del suo autore, nel 1532. Poco dopo venne incluso nell’Indice dei libri proibiti dalla Chiesa per quel disprezzo mostrato per l’etica del potere. Solo durante l’Illuminismo venne alla luce della conoscenza umana: un trattato pratico su come esercitare il potere in maniera efficiente. Per scriverlo si ispirò all’astuto Cesare Borgia, che per lo scrittore incarnava le virtù che deve possedere un principe: non necessariamente positive o morali, ma quelle che meglio assicurano il potere.
Contrariamente a quanto gli si attribuisce, Machiavelli non è stato del tutto alieno alle questioni etiche: una delle sue più grandi preoccupazioni riguardava il famoso dilemma su cosa sia meglio per un governante, se essere amato o temuto. Lo studioso fiorentino sosteneva che l’ideale sarebbe riuscire a essere entrambe le cose ma, nel caso in cui si debba obbligatoriamente scegliere, ‘è molto più sicuro per il principe essere temuto che amato, quando fosse assente uno dei due’. Insomma, la lezione di Machiavelli, tra corsi e ricorsi storici torna prepotentemente come monito alla politica di oggi: è fondamentale seguire la realtà delle cose senza falsi buonismi o frasi politicamente corrette, ragionare su come si vive e non come si dovrebbe vivere e seguire strade pratiche abbandonando tutto ciò che sarebbe bello che fosse, ma non lo è.