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Francesco Rossi
Dopo la pausa per le qualificazioni a Germania 2024, è ripartito il grande calcio. Ma è stata una sosta tutt’altro che prevedibile schiacciata tra l’incubo di un nuovo scandalo scommesse, che vedrebbe coinvolti calciatori di un certo peso, passando per l’esonero fantasma di Rudi Garcia dalla panchina del Napoli, per finire all’evento più importante: l’assegnazione all’Italia dei campionati europei del 2032.
Una data non banale dal momento che saranno passati ben quarantadue anni dall’ultima volta. Quarantadue lunghi anni da quando alla FIGC è stata destinata una manifestazione pallonara: erano i mondiali del 1990. Questa volta l’impegno è meno gravoso anche per una rilavante novità rispetto al passato: l’Italia non sarà sola in questa avventura, ma verrà affiancata dalla Turchia.
Dieci città coinvolte (forse dodici), cinque per ogni nazione. Un esperimento, quello del doppio paese organizzatore, diventato oramai prassi consolidata. Tornano, dunque, ad incrociarsi i destini dei due stati dopo l’Impero Bizantino, con la situazione completamente capovolta: è la nazione del Bosforo a guardarci dall’alto verso il basso grazie alla presenza di stadi belli, funzionali e moderni, l’esatto contrario del Bel Paese.
Quale migliore occasione, si dirà, per mettersi in linea col resto d’Europa? Tutto bene, quindi? Non proprio. La base di partenza è molto spinosa e la strada per giungere a dama – con la costruzione di impianti nuovi e all’avanguardia- è lastricata di trappole sparse un po’ ovunque. Ci vorrebbe la potenza di Robocop e la bravura di Fangio per schivarle, servirà tanta pazienza prima che il quadro a tinte fosche attuale diventi uno splendido dipinto di rose e fiori. Il problema, quasi costituzionale vista la sua intoccabilità, è sempre lo stesso: la burocrazia. Ti scruta, ti studia, ti marca a vista per poi spuntare all’improvviso come gli elicotteri nei film d’azione senza lasciarti scampo.
Come se ciò non bastasse, spesso e volentieri, si aggiunge anche la Sovrintendenza ai Beni Culturali con i suoi vincoli arcaici molti dei quali di natura ideologica, prima che storica o ambientale. Una corsa ad ostacoli un po’ come avviene nel gioco del Monopoli, con la differenza che qui ci sono solo vicoli Corti, Stretti, Imprevisti e nessuna Probabilità. Nessuna probabilità di farcela.
La faccenda è talmente seria da avere persino fatto sbroccare Beppe Sala. Il primo cittadino di Milano è da anni alle prese con la spinosa pratica San Siro, che le due squadre cittadine (Inter e Milan) ritengono vecchio ed obsoleto.
“Il vincolo messo è una cosa vergognosa. Se si mette un vincolo culturale su un luogo dove si gioca a pallone, allora estendiamolo al 90% degli edifici milanesi“. “Non poter tirare giù il vecchio San Siro significa che accanto non potrà sorgere il nuovo stadio, perché due stadi funzionanti porterebbero a 150/200 giorni all’anno di eventi. Chi lo va a raccontare ai residenti del quartiere? Faremo ricorso contro questa assurdità.”
Una dichiarazione forte, d’impatto, molto populista e poco politicamente corretta com’è solitamente nello stile di Sala. Il malessere del Sindaco nasce in particolare dal vincolo storico applicato al secondo anello dello stadio che impedisce, di fatto, l’abbattimento della struttura e quindi la costruzione di un nuovo impianto in zona San Siro. Vincolo fortemente difeso anche da Vittorio Sgarbi senza però averne spiegato il motivo.
C’è poi anche un problema di natura economica. Ad oggi i costi di gestione (circa dieci milioni annui) sono interamente a carico di Suning e Redbird, con un San Siro pensionato, tutto l’onore ricadrebbe sulle spalle dei già tartassati milanesi almeno che non lo si abbandoni lasciandolo mestamente al suo destino. Nonostante (almeno a parole), le due società sembrano avere l’inquilino di palazzo Marino al loro fianco in questa logorante e lisergica battaglia, difficilmente attenderanno l’esito dell’eventuale ricorso. Conseguentemente a ciò Inter e Milan hanno optato per soluzioni fuori città. I nerazzurri a Rozzano, comune ad Ovest di Milano, a due passi dal Mediolanum Forum (Assago). I rossoneri invece a San Donato, sempre comune a sé, incastonato tra le tangenziali Est ed Ovest e non lontano dalla barriera di Melegnano, prima porta del capoluogo per chi arriva in auto dal sud Italia. Uno smacco significativo per la città italiana simbolo dello sviluppo e della modernità.
Milano, naturalmente, è tra le cinque città scelte per gare dell’Europeo (assieme a Torino, Roma e Napoli). Per il posto libero rimasto sono in ballo: Verona, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Cagliari e Palermo. Tutte piazze dove il problema strutturale è più o meno lo stesso: impianti vecchi, scomodi, ed alcuni con visibilità ridotta per via della pista di atletica presente e non più conforme con i nuovi parametri. L’UEFA ha infatti stabilito che per competizioni da lei organizzate non sarà più possibile avere stadi multiuso: solo calcio, e quindi niente pista. Così facendo Napoli, Bari e Verona sembrerebbero spacciate.
Ci sarebbe tutto il tempo per ovviare a queste carenze ma la grande paralisi del sistema rende tutto maledettamente difficile, se non impossibile. Nonostante leggi apposite, nonostante accordi con l’Istituto di Credito Sportivo per il rilascio dei mutui agevolati, nonostante soldi privati per la realizzazione, nonostante tutto ciò si è arrivati a chiedere il Commissario straordinario che, se nominato, rischia di essere l’ennesimo disperato tentativo senza risoluzione.
Emblematico quanto successo a Roma con il progetto del nuovo stadio a Tor di Valle pensato e progettato dall’allora patron James Pallotta. Tra iter (Comune, Ragione Lazio, comitati cittadini, conferenza di servizi), rinvii, modifiche, querele, sequestri e soldi spesi (otto milioni circa) è stato un vero e proprio calvario durato quasi dieci anni e concluso con un bel nulla di fatto, col progetto cestinato. Da due anni ci sta provando la nuova proprietà, la famiglia Friedkin, ma ogni qual volta sembra aprirsi uno spiraglio spunta sempre fuori qualcosa. L’area individuata è quella di Pietralata (poco distante dalla Stazione Tiburtina), ma i problemi sembrano gli stessi di Tor di Valle. L’unica differenza è che in questo caso tutta la giunta è favorevole alla realizzazione, contrariamente alla precedente guidata da Virginia Raggi.
Se Roma piange Firenze non ride e se una cosa può andare storta, lo farà. Nella città dei Medici era tutto pronto per la ristrutturazione del vecchio “Franchi”, progetto che il Sindaco Nardella aveva inserito nel calderone dei fondi del PNRR, aveva, appunto. Perché s’è messa di mezzo l’UE che ha posto il veto assoluto: non un solo euro per lo stadio (il totale era di circa novanta milioni). Un contrattempo che il primo cittadino piddino non aveva considerato. Nardella (le cui colpe per aver ostacolato Rocco Commisso nella costruzione di un nuovo impianto nell’aera dei mercati generali non possono certamente essere dimenticate) dice di voler proseguire sulla linea tracciata utilizzando i fondi europei (anzi, il prestito, essendo soldi che devono essere restituiti), calcando la mano fino a sfidare i palazzi del potere. Se da un lato l’iniziativa del Sindaco è lodevole (ammesso che lo faccia sul serio), dall’altra questo intoppo non fa altro che rallentare ancor di più tutta la pratica, con la città di Firenze che avrà ancora a che fare con uno stadio costruito nella preistoria.