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Valentina Marsella
Il caso di Iolanda Apostolico, il giudice finito sotto attacco politico per la partecipazione all’ormai famosa manifestazione pro-migranti al porto di Catania e la condivisione sui social di una petizione in cui si chiedeva una mozione di sfiducia per Matteo Salvini – allora ministro dell’Interno – riaccende il dibattito sul rapporto magistrati e social network. Al di là degli accertamenti disposti dal Guardasigilli Carlo Nordio nei suoi confronti, propedeutici all’avvio dell’azione disciplinare, ci si interroga soprattutto sulle regole ‘morali’ del magistrato in contesti che assumono rilievo mediatico.
Regole che non sono scritte ma in questo caso dipendono sostanzialmente dalla coscienza che nessuna legge può dettare. Rosario Livatino diceva che il giudice oltre ad essere, deve anche apparire indipendente. È importante che egli offra di sé stesso l’immagine non di persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di persona seria, equilibrata e responsabile.
E che dire del pensiero e della lezione sempre attuali di Piero Calamandrei, che nel ‘54, nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”, sosteneva che “il giudice dev’esser distaccato da ogni legame umano, superiore ad ogni simpatia e ad ogni amicizia: ed è bene che i giudicabili lo sentano lontano ed estraneo, inaccessibile”, che “il dramma del giudice è la solitudine perché egli per giudicare dev’esser libero da affetti umani e posto un gradino più su dei suoi simili”. E ancora, che “la indipendenza dei giudici, cioè quel principio istituzionale per cui essi al momento in cui giudicano debbono sentirsi svincolati da ogni subordinazione gerarchica, è un duro privilegio, che impone, a chi ne gode, il coraggio di restar solo con sé stesso”.
Una legge del 2006 aveva provato a tracciare un confine nell’esposizione pubblica del magistrato, ma la parte che riguardava comportamenti contro il decoro e la credibilità della toga fuori dall’esercizio delle sue funzioni è stata poi abrogata, come sono scomparsi gli atti che possano ledere il prestigio dell’istituzione giudiziaria. È rimasta in piedi solo la normativa che disciplina gli illeciti disciplinari, le relative sanzioni, la procedura per la loro applicabilità, per incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio delle toghe. A mettere qualche ‘paletto’ ci ha provato poi il Massimario della Corte di Cassazione che ha stabilito nel 2021 un giro di vite alle esternazioni delle toghe sui social.
Nel documento è scritto nero su bianco che se a differenza degli incarichi extragiudiziari le condotte dei magistrati sulle piattaforme dei social media non sono oggetto di una specifica disciplina giuridica, queste posso essere regolate da norme deontologiche e, in parte, sono contenute nelle linee guida elaborate dal Csm indirizzate ai capi degli uffici giudiziari. Linee guida non vincolanti ispirate alla trasparenza, autonomia, indipendenza, tutela del diritto di informazione dei cittadini e i rapporti dei magistrati con i mass media improntati alla moderazione e alla compostezza.
Ma quali sono i limiti riguardo le attività dei magistrati sui social network, sia per espressioni o pubblicazioni di natura privata sia su temi di interesse generale che di importanza politica? C’è differenza tra profilo privato e pubblico tenendo conto del numero di follower? La partecipazione a determinati gruppi, a like o a follow può minacciare la dignità delle toghe? La risposta del Massimario è sì, sia nelle esternazioni che riguardano procedimenti trattati dall’ufficio, sia in espressioni della sfera privata, per una necessaria tutela dei principi di compostezza, equilibrio, serietà e riserbo. Regole deontologiche che impongono un self-restraint ancora più rigoroso nei casi in cui quelle esternazioni assumano una rilevanza politica.
Insomma, da anni si discute del delicato rapporto magistrati social, ma al Csm la discussione è tornata prepotente dopo il caso Apostolico. Tanto che il consigliere laico di Italia Viva Ernesto Carbone ha chiesto al Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli di aprire una pratica per definire – a questo punto una volta per tutte – i ‘criteri guida’ per la comunicazione via ‘social’ da parte delle toghe, sollecitando una discussione sul tema. La richiesta si fonderebbe sulla necessità di fare chiarezza sul tema, per garantire uniformità e parità di trattamento di tutti magistrati relativamente al diritto di esprimere e diffondere le proprie opinioni attraverso questo strumento, e definendo dunque, anche la natura degli stessi ‘social’, se siano da considerare strumenti per l’espressione della vita privata, oppure della vita pubblica dei togati.
Prima di lui, nel 2017, era intervenuto sul punto il senatore e capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia a Palazzo Madama Pierantonio Zanettin. Quando era componente del Csm aveva infatti chiesto di indicare delle regole per garantire il rispetto dei principi deontologici anche nelle esternazioni a mezzo social network. “Mi auguro che la pratica abbia finalmente buon esito – ha sottolineato Zanettin – perché il ruolo di magistrato impone prudenza, sobrietà e riservatezza a tutela della credibilità della funzione. All’epoca il Csm preferì nascondere il problema sotto il tappeto invece di trovare una soluzione. L’auspicio è che oggi i tempi siano maturi per una assunzione di responsabilità”.
Sarà davvero la volta buona?