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Ad accendere i riflettori, nell’autunno in corso, sul quasi dimenticato tema della giustizia riparativa è stata la richiesta dei legali di Davide Fontana, condannato in primo grado a 30 anni per l’omicidio di Carol Maltesi, di ammettere il loro assistito al percorso di riparazione del danno e riconciliazione tra le parti normato dalla riforma Cartabia. Questa scelta è stata accolta con sdegno sia dalla popolazione che da moltissimi operatori del settore sollevando un vespaio di critiche spesso caratterizzate da una tale ignoranza giuridica e da cotanto livore da lasciare attoniti. Urgono, a questo punto, precise delucidazioni nel merito che ci permettano di capire esattamente cosa si intenda e come si concretizzi la giustizia riparativa e, con l’obiettivo di promuovere una corretta informazione, a chiarire questo nuovo e ai più sconosciuto dispositivo proprio dal legale di Fontana. Colui che, primo in Italia, questa nuova possibilità ha lungamente studiato, approfondito, compreso e promosso. Ricostruiamo la vicenda. Davide Fontana è l’assassino reo confesso di Carol Maltesi uccisa, fatta a pezzi e custodita, dopo un vano tentativo di darne i resti in pasto al fuoco, in un congelatore a pozzetto. Molteplici quanto gravissime le accuse a suo carico: omicidio aggravato da premeditazione, motivi abietti, sevizie e crudeltà, minorata difesa, precedente relazione affettiva, distruzione e occultamento di cadavere.
Nel giugno scorso, al termine di un complicato processo Fontana è stato condannato a trent’anni, con l’esclusione delle aggravanti (motivi abietti, sevizie, crudeltà e premeditazione). Recentemente sia la Procura che i difensori dell’imputato hanno proposto ricorso in appello: la prima per perseguire l’inasprimento della pena ed i secondi per ottenere un riconoscimento diminuente per il rito abbreviato, la diminuzione della pena e il riconoscimento delle attenuanti generiche prevalenti.
Nel mentre è stata avanzata da Fontana la richiesta di accesso all’istituto di giustizia riparativa, richiesta che i difensori hanno motivato con queste parole: “l’imputato ha manifestato sin dalla fase delle indagini preliminari la seria, spontanea ed effettiva volontà di riparare alle conseguenze del reato”, successive alle dichiarazioni dello stesso Fontana che in sede processuale ha dichiarato di aver bisogno di riparare alla sua condotta, aggiungendo di essere disposto a fare “qualsiasi cosa si possa fare anche verso i parenti di Carol o altre associazioni”.
La giustizia riparativa o rigenerativa viene disciplinata nel 2022 con la riforma Cartabia; un istituto piuttosto giovane che trova la sua prima applicazione nel caso di Davide Fontana. Ci può spiegare in cosa consiste questo istituto?
La giustizia riparativa è un istituto che trova già applicazione da tempo all’estero e ha dato buoni risultati in casi in cui stato necessario ricomporre un conflitto radicato a livello sociale; in Italia non era disciplinato a livello normativo, anche se informalmente e su base volontaria sono stati fatti dei percorsi di giustizia in casi di reati di matrice terroristica ovvero di stampo mafioso. In estrema sintesi, la giustizia riparativa è un percorso il cui obiettivo è il raggiungimento di un esito riparativo, ovvero un accordo finalizzato alla riparazione dell’offesa, idoneo a rappresentare l’avvenuto riconoscimento reciproco – inteso come riconoscimento della vittima e responsabilizzazione del soggetto indicato come reo – nonché la possibilità di ricostruire la relazione tra i partecipanti, ovvero i legami con la comunità. Ratio dell’istituto è dunque quella di ricomporre la “frattura” che il fatto illecito crea non solo tra autore e vittima, ma anche all’interno del contesto sociale di riferimento. Il tutto attribuendo un ruolo centrale alle esigenze della vittima stessa, al contrario di quanto accade nel procedimento penale, il quale invece si incentra sull’autore del reato, con la persona offesa che “resta sullo sfondo”.
L’esito riparativo può essere sia simbolico (come, ad esempio, delle scuse formali) o materiale (ad esempio, un risarcimento del danno).
Quali sono i requisiti di accesso alla giustizia riparativa?
L’istituto può essere azionato, in ogni stato e grado del procedimento penale ed anche nella fase esecutiva della pena, sia su richiesta dell’imputato, sia su richiesta della persona offesa, sia addirittura d’ufficio dal Giudice; ciò in quanto l’istituto della giustizia riparativa ha natura pubblica, e mai si risolve in una “questione privata” fra vittima e autore del reato.
Da chi viene valutata la possibilità di accedere a tale istituto? Ci sono condizioni ostative?
È il Giudice di merito, o il Giudice di Sorveglianza nella fase d’esecuzione, che deve dare una prima delibazione circa il fatto che il programma possa essere di risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede e non comporti un pericolo per gli interessati e per l’accertamento dei fatti. Il legislatore però, precisa all’art. 43 comma 4 del D. lgs 150/2022 che “l’accesso ai programmi di giustizia riparativa è sempre favorito, senza discriminazioni e nel rispetto della dignità di ogni persona. Può essere limitato soltanto nel caso di pericolo concreto per i partecipanti, derivante dallo svolgimento del programma”. Una volta accertata l’assenza di un pericolo concreto per i partecipanti e per l’accertamento dei fatti, nonché l’astratta utilità per la risoluzione delle questioni derivanti dal fatto, il Giudice deve inviare le parti ad un Centro di giustizia riparativa; infatti il vaglio sulla fattibilità concreta del percorso riparativo non compete a lui, ma al personale del Centro di giustizia riparativa e ai mediatori, che valuteranno tale aspetto solo dopo l’invio delle parti interessate innanzi a loro.
È bene precisare che si può accedere ad un programma di giustizia riparativa per qualsiasi reato, anche per i più gravi. Del resto, se si fosse confinato l’istituto a casi “bagatellari”, lo si sarebbe destinato a casi nei quali non ve n’era effettivo bisogno. Non è di ostacolo allo svolgimento del programma l’eventuale dissenso della vittima del reato, che potrebbe rifiutarsi di partecipare. In tal caso il legislatore prevede che possa farsi ricorso ad una vittima “sostitutiva”, ossia la vittima di un reato diverso che accetti di incontrare l’accusato, o il condannato, durante il percorso.
Ad esempio, Benedetta Tobagi, figlia di Walter, ucciso dai terroristi, ha sempre rifiutato di incontrare gli assassini di suo padre, ma ha accettato a fare da vittima “sostitutiva” per altre persone che, macchiatesi di crimini violenti, hanno sentito la necessità di mettersi in discussione ed espresso il desiderio di affrontare un percorso riparativo.
In questo senso, sostenere come taluno ha fatto che un programma di giustizia riparativa costringa la vittima del reato ad una forma di vittimizzazione secondaria è profondamente sbagliato, in quanto ella è libera di non partecipare; come pure è errato sostenere che in mancanza di assenso della vittima il Giudice non debba inviare un imputato o un condannato al Centro per la giustizia riparativa. Sorprende peraltro vedere che tali affermazioni sono provenute anche da soggetti tecnici che operano nel settore.
Sono previsti “premi” per il detenuto che viene ammesso a tale percorso?
È bene precisare che non è necessario che un soggetto sia detenuto perché possa accedere ad un programma di giustizia riparativa. Lo svolgimento positivo di un programma cui abbia partecipato la persona offesa, oppure il rispetto di impegni comportamentali assunti nel corso del programma, determina la remissione tacita della querela per i reati sottoposti a tale condizione di procedibilità. Viceversa, per i reati procedibili d’ufficio, la partecipazione positiva dell’accusato ad un programma di giustizia riparativa è menzionata dal legislatore altresì quale nuova circostanza attenuante, oppure quale requisito cui subordinare la sospensione condizionale della pena.
Ovviamente tali aspetti premiali sotto il profilo del trattamento sanzionatorio sono possibili solo ove il programma si svolga nel corso della fase di merito, ed a tale scopo il giudice può anche sospendere il procedimento (sospendendo anche il decorso dei termini prescrizionali e di durata di custodia cautelare).
Per il condannato che debba espiare la pena, l’accesso ad un programma di giustizia riparativa ed il suo positivo svolgimento potrebbe essere valutato favorevolmente al fine consentirgli l’accesso a permessi o a misure alternative. Bisogna però precisare che la norma non prevede alcun automatismo in tale senso, e la valutazione è rimessa alla magistratura di sorveglianza.
Come si concretizza, nella pratica, il percorso di riparazione del danno e riconciliazione tra le parti promosso da questo istituto?
Non si sono ancora formati dei protocolli standardizzati: preme sottolineare che ogni condannato è tenuto a partecipare al processo rieducativo, e che chi chiede di essere avviato ad un programma di giustizia riparativa chiede di svolgere un impegno supplementare, che non è alternativo al carcere (nel caso sia detenuto).
Ribadisco che non si tratta però di un percorso “privato” tra reo e vittima: si tratta di un percorso che cerca di ricucire lo “strappo” creato dal comportamento antinormativo con l’intero tessuto sociale e territoriale; in questo senso potrebbe essere estremamente proficuo il coinvolgimento anche di conoscenti e amici della vittima, ovvero di rappresentanti di enti e associazioni del territorio ove la stessa vive o ha vissuto. Penso che nel corso di un programma il partecipante potrebbe – al momento opportuno e dopo adeguato percorso – essere chiamato a prestare opera concreta in favore di associazioni che contrastano proprio quel crimine che ha commesso, alla stregua del ladro redento Flambeau dei “Racconti di padre Brown”, che diviene investigatore e collabora fattivamente con la Giustizia.
Un istituto simile è quello della messa alla prova, introdotto nel nostro ordinamento nel 2014 per delitti di minore gravità e che si specchia nella giustizia riparativa; tale istituto permette all’imputato di estinguere il reato sottoponendosi prima del giudizio ad un programma nel corso del quale eliderà le conseguenze dannose delle sue azioni, ove possibile, e svolgerà anche lavoro di pubblica utilità ovvero volontariato di rilievo sociale oltre a porre in essere – se possibile – condotte di mediazione con la persona offesa e lo svolgimento di programmi di giustizia riparativa.
Questo nuovo istituto va rafforzando l’obiettivo rieducativo della pena. Lei, al netto della sua posizione quale legale di Fontana, che idea si è fatto di questa nuova possibilità?
Penso che la tendenza ad alzare continuamente le pene, tipica del legislatore degli ultimi anni, accontenti la pancia del Paese ma, in concreto, abbia uno scarso o nullo effetto deterrente, cosa che invece può aversi creando sensibilità culturale e sociale attorno ad un dato fenomeno criminale. Ovviamente è presto per esprimere un giudizio sulla validità di questo istituto, perché solo il lungo periodo permetterà di valutare se le aspettative saranno ripagate o meno; è un fatto però che in altri Paesi dove la giustizia riparativa è stata sperimentata, ha dato ottimi risultati. Chi veramente si batte contro la violenza di genere dovrebbe guardarvi con interesse e favore, anziché contrapporvisi per partito preso, vedendo erroneamente in esso uno strumento attraverso cui il reo possa ottenere chissà che favori.
Mi ha sorpreso peraltro leggere tali opinioni proprio da rappresentanti di associazioni che sul punto hanno o dovrebbero avere competenza. Se, come dicono e ripetono, davvero vogliono “giustizia, non vendetta”, ebbene questa è una vera forma di giustizia che attraverso impegno concreto e fattivo può portare a far maturare consapevolezza tanto nell’autore del reato quanto nella società che ha circondato lo stesso e la vittima. Murare viva una persona e precluderle di lavorare su di sé, ed in favore della comunità, risponde a mio avviso ad una cieca volontà punitiva e non è giustizia: è occhio per occhio, è mera vendetta.
Che l’uomo non possa essere ridotto alla sua colpa, che sia umanamente e socialmente necessario che la giustizia operi in funzione del recupero del reo è pensiero da me più volte condiviso anche qui, sulle pagine di Itaca. Come asserito dal legale di Davide Fontana, che pur si è macchiato di uno dei delitti più infamanti, giustizia e vendetta sono concetti così profondamente diversi che non dobbiamo sovrapporre o confondere: se è vero, perseguito e perseguibile, quanto sancito dal 3° comma dell’articolo 27 della Costituzione “Le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato” ritengo sia necessario accogliere questo nuovo istituto considerandolo e sfruttandolo in quanto strumento potenzialmente utile in un contesto, quello carcerario – detentivo, che come sostenuto dal direttore del carcere di San Vittore Luigi Pagano -“non possiede le risorse necessarie a concretizzare e rendere efficaci i programmi educativi con l’avvilente risultato che, alla fine dell’espiazione della pena, spesso esce dal carcere un soggetto molto più pericoloso di quello che è entrato”. Dalle ricerche effettuate nel mondo anglosassone risulta infatti che tramite i percorsi di giustizia riparativa si giunge, con buoni risultati ed in alta percentuale, alla riduzione di comportamenti recidivanti con miglior reinserimento del reo nel contesto sociale e maggior coscienza collettiva e personale.