contenuto a cura di
Francesco Rossi
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Centocinquantamila persone sparse tra le spiagge e le strade di Rio de Janeiro, praticamente una città intera di media grandezza. Una marea umana vestita di giallo e blu, festante e speranzosa. Centocinquantamila anime con le ali da farfalla e la postura da ballerina. Pensieri stupendi che volano leggiadri nella calda brezza dell’Oceano Pacifico trasportati da un sogno diventato troppo presto miraggio, perché dietro un miraggio c’è sempre un miraggio da desiderare. Ed è quindi naturale come le lancette della memoria, i fotogrammi della mente abbiano riavvolto il nastro dei ricordi stampati in fronte come uno scatto della Polaroid, fino a quel 20 dicembre 2022 giorno in cui più di 4 milioni di argentini accolse Messi e compagni dopo il trionfo arabo.

E peccato se tutto ciò poteva sembrare una carnevalata fuori stagione; nella patria del Carnevale allegorico e gioioso tutto è lecito. Anche che centocinquantamila cuori del Boca junior si riversino in massa nel capoluogo brasiliano per accompagnare la loro squadra in occasione della finale della Coppa Libertadores, l’equivalente della Champions League europea.

Accompagnare è il termine esatto in quanto solo pochi di loro hanno avuto il privilegio (diventato poi sortilegio) di poter assistere alla gara direttamente dallo stadio. I più fortunati, probabilmente i più abbienti. Come i passeggeri del Titanic: i ricchi in suite di prima classe, i poveri in squallide cabine di terza a combattere con i ratti e impossibilitati a mettere il naso oltre la zona loro assegnata. Tutti però a rincorrere lo stesso sogno. Alla fine, tutti tragicamente delusi.

Cosa può spingere, allora, così tanta gente a sobbarcarsi in un lungo e costoso viaggio solo per vedere le spiagge di Rio? L’amore viscerale che questo popolo ha per il pallone è una sensazione, prima che un’ipotesi. Un fenomeno sociale che coinvolge praticamente tutti, casalinghe comprese, che al mondo ha pochi eguali. E quando si parla di Boca junior si parla anche di Argentina, essendo la squadra di Buenos Aires, la più seguita della nazione con oltre il 36% di afecionados sparsi su tutto il territorio. Ricorda in parte il calore dei tifosi del Napoli, la città più “argentinizzata” in assoluto. Forse per via dei tanti partenopei che negli anni delle guerre sono emigrati lì, in cerca di fortuna e tranquillità.

Anche se Boca, il quartiere dov’è nata la squadra, è stato fondato dai genovesi. A sancire “il patto di sangue” tra le due tifoserie l’arrivo in maglia azzurra di un certo Diego Armando Maradona, che ha idealmente unito i due popoli sotto la stessa stella. Un mito fondativo che ha reso il legame ancora più forte. Come non ricordare la semifinale del campionato del Mondo, disputata proprio al “San Paolo”, tra Italia e Argentina, in cui una larga fetta di tifoseria fischiò l’inno di Mameli per concentrarsi su quello albiceleste? Un innamoramento totale dei napoletani -secondo solo a quello per San Gennaro- verso l’uomo che ha trasformato i sogni in scudetti e coppe- e sciolto i sentimenti da troppo tempo incancreniti sull’altare della mediocrità come segno distintivo e quasi immarcescibile.

Se il Pibe de Oro è stata un’icona, un ponte tra Napoli e Argentina in cui sono andate in scena tutte le magie del numero 10, il calcio nella terra della Pampa è uno stile di vita, una credenza popolare. Un sentimento emotivo e testardo, poetico e talvolta senza scrupoli. Resiliente e tormentato, armonizzato su quella scia luminosa in grado di fondere due entità sul piano storico – politico: rappresenta il vero collante nazionale nonché il mezzo più efficace ed immediato per costruire un’epica di popolo. L’unico capace di imprimere uno slancio importante alla coesione generale. Con buone probabilità che l’alternativa coesiva sarebbe stata un nemico da ricercare e stanare, soprattutto per via della loro etica quasi ingiudicabile dal punto di vista morale dove chi vince scrive le regole della convivenza.

La passione morbosa da esporre come un prezioso cimelio, a dimostrazione dell’attaccamento corale alla causa. Una sorta di “nosotros” nella terra dalle tante diversità etniche e sociali. Ma dove il calcio unisce il denaro divide, a maggior ragione dove spesso un tozzo di pane è mors tua vita mea. Succede che a Buenos Aires dalla fine degli anni ‘70 esiste “La 12” (Doce), che racchiude il grosso della tifoseria del Boca ma anche la parte più popolare, più calda ed irrequieta, che grazie alla vastissima notorietà della squadra, nel tempo si è trasformata in un’istituzione mondiale. Tutto ciò ha fatto sì che “La 12” diventasse in breve tempo una gallina dalle uova d’oro, un pozzo di soldi senza fondo. Da allora scalare i vertici per prenderne il comando si è mutuato in un affare di Stato il che ha portato a violenti scontri tra bande rivali con incidenti, ferimenti ed anche morti assai sospette. Questo accade anche perché, come ha confermato un recente studio, la tifoseria del Boca è concentrata maggiormente sulle classi lavoratrici e poco su quelle facoltose.

Quasi l’opposto di quanto avviene qualche chilometro più in là, a casa del River Plate dove comandano i “Los Barrachos del Tablon”. Nati recentemente (2001), la storia non si diversifica molto rispetto a quella degli acerrimi nemici de “La 12”. Lotte di potere sanguinarie pure qui, praticamente sin da subito. Due esistenze, due moti quasi rivoluzionari che hanno trasformato i rispettivi stadi, “Bombonera” e “Monumental”, in due roccaforti pronte ed esplodere e prendere fuoco.

Per concettualizzare in un unico file la profetizzazione di ispirazione calcistica che accompagna lo spirito e guida l’anima degli argentini alla ricerca della felicità promessa (una sorta di terra della pace dei sensi), è sufficiente ricordare la narrazione secondo cui la vittoria del Mondiale del 1978 ebbe la forza di fermare, seppur temporaneamente, il regime di Videla a conferma del fatto di come il calcio in Argentina sia vissuto con venerazione messianica, capace pure di scaldare i cuori di feroci dittatori. Ma anche quelli di un padre che pur di non mancare all’appuntamento con la storia, e far vivere al figlio una giornata di gloria (diventata poi nefasta), decide di vendere l’unico mezzo con cui andava al lavoro -il motorino- e la PlayStation del ragazzino. Ma anche di mandare in tilt il sistema emotivo di un adolescente di appena 23 anni, agente di polizia, il quale al termine della finale persa dal Boca junior decide di togliersi la vita, gesto che aveva anticipato nei giorni precedenti in caso di sconfitta, cosa puntualmente avvenuta. Una tragedia vera, senza un perché. Soprattutto una sconfitta per la famiglia del giovane tifoso, ancora incredula su quanto avvenuto. 

Là dove neanche  “la mano de Dios” nulla ha potuto.