contenuto a cura di
Valentina Marsella
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La morsa della violenza che uccide sentimenti e spezza vite è sempre in agguato e ci toglie il fiato. Pirandello lo sapeva bene, ed è stato uno dei più grandi drammaturghi che ha portato sulle scene la sottile linea fragile dell’equilibrio sentimentale e il tarlo del possesso che portano a scatenare il dramma. Nei giorni in cui il femminicidio ha il volto di Giulia Cecchettin, come un masso che schiaccia la coscienza collettiva, c’è chi racconta e porta in scena La Morsa, commedia di Luigi Pirandello del 1892.

Frasi spezzate e battute allusive, dove il non detto prevale sul detto e dove tutto è già avvenuto in precedenza. I suoi protagonisti sono impegnati in un atroce processo ai propri sentimenti. La storia di un marito geloso, di una moglie adultera e della morte di lei, che si toglie la vita, ma il suicidio è indotto dall’uomo in un crescendo drammatico di violenza psicologica. Una storia che non contrassegna solo il dato di fatto della morte della donna all’interno del rapporto di coppia ma che descrive al contempo il dominio culturale. Un dominio dove ‘una e nessuna diventano centomila’, travolte dall’odio dell’uomo che diceva di amarle.

Un dramma quotidiano, di ore, minuti maledetti, che torna in ‘Apparenze’, spettacolo in scena dal primo al 3 dicembre, negli spazi della nuova realtà artistica del Teatro Off Studio di Roma. A dare voce alla protagonista, Giulia –  un nome che oggi racconta una disperata storia di attualità – sarà Oriana Celentano, attrice di teatro e cinema da anni attiva nella sensibilizzazione e diffusione del messaggio contro la violenza di genere.

Tratto da due atti unici di Luigi Pirandello poco conosciuti, La Morsa (1892) appunto, e all’uscita (1916), lo spettacolo parla dell’intreccio tra tre personaggi, da cui emergono relazioni intime segnate da una disfunzione di potere, in cui il possesso si sovrappone all’autonomia individuale, una riflessione su come dei testi scritti più di 100 anni fa risultino così drammaticamente attuali. La Morsa ci porta ad assistere a una tragedia, a una morte spesso annunciata, mentre All’uscita ci trasporta in una meditazione sulla morte, naturale risvolto di quella sulla vita, che occupa molto spazio nell’opera creativa e saggistica di Pirandello. Diventa qui situazione, una situazione davvero particolare.

L’autore immagina l’incontro, all’uscita di un cimitero, di alcuni morti che, lasciato nella tomba il loro ormai inutile corpo, prima di scomparire del tutto, ancora per un pò consistono nell’apparenza che ebbero. A tenerli legati in qualche modo alla vita, e qui Pirandello si ispira alle teorie teosofiche, è un desiderio, un sentimento, la ricerca di una risposta. Un muro, una porta, di qua, campagna, all’uscita posteriore d’un cimitero. Di là dal muro grezzo, bianco –scrive Pirandello in questa commedia definita da lui stesso mistero profano – s’intravedono, in una trasparenza scolorata d’umido barlume crepuscolare, alti cipressi notturni. I morti, lasciato il corpo inutile nelle fosse, escono lievi dalla porta con quelle apparenze vane che si diedero in vita”. Un’immagine macabra e fortemente evocativa, un tour emozionale e disperato dove sfilano vite spezzate”.

Lo spettacolo pur derivando da opere pirandelliane, assume nuova vita grazie all’adattamento di Francesco Carrassi che ne ha curato la regia. Ma Pirandello e il suo scuotere le coscienze restano le fondamenta più profonde del teatro che ti sbatte in faccia le tragedie della vita. Nel monologo della donna uccisa tratto proprio da All’uscita, la vittima ride in preda alla pazzia. Il suo volto è leggero, nella penombra, ma l’impatto delle sue parole ha una forza devastante. Rivolgendosi alle altre donne, racconta gli istanti in cui il marito l’ha uccisa, poi baciata. “Un bacio di sangue, perché – sussurra – nessun bacio mai m’ha bruciato. Era il mio sangue, era questo bruciore inutile del mio sangue”.