contenuto a cura di
Giulia Guglielmi
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Alzi la mano chi andando dal proprio medico per fare una visita, all’uscita di questa, si sia chiesto, ma le medicine che mi ha prescritto andranno bene per il mio tipo di malanno?

Ma perché mai non dovresti fidarti quello che ti ha prescritto, quando sta agendo per il tuo bene? A cosa ti servono più informazioni quando puoi avere fede cieca nella tua ricetta medica?

Il tema di cui ci vogliamo occupare è se esista una libertà di porre domande, se e quando una domanda può essere più o meno lecita, una riflessione profonda sulla natura della libertà di parola e il suo ruolo in una società democratica.

La libertà di espressione, nel suo autentico significato, non può essere selettiva o discriminatoria; deve abbracciare la pluralità di voci, garantendo a ciascun individuo il diritto di esprimere la propria opinione, e i propri interrogativi indipendentemente da quanto questa possa discostarsi dalla corrente principale di pensiero.  Ma come può avvenire questo processo se non ponendo domande o quesiti ‘scomodi’ solo perché condivisi da pochi? E soprattutto questi ‘molti’ definiscono la loro realtà giusta solo perché costituiscono la maggioranza?

L’esperienza della pandemia ha sollevato riflessioni profonde sulla limitazione delle libertà personali in nome di un bene comune, mettendo in evidenza la necessità di misure drastiche e rafforzando il ruolo delle organizzazioni governative nel plasmare il tessuto sociale.  Ciò ha portato molte persone a bilanciare il proprio senso di autonomia con la necessità di collaborare per il bene comune. Altri, invece, hanno percepito una diminuzione del valore della propria identità all’interno di un sistema sempre più orientato al collettivismo.  

In questo panorama si è delineato il ruolo dei mass media. L’accesso a una vasta gamma di informazioni dovrebbe favorire una maggiore consapevolezza, ma la tendenza a seguire passivamente le narrazioni preconfezionate può ridurre la capacità critica e la volontà di porre domande scomode. A braccetto con mass media sono emerse figure che assumono il ruolo di “detentori del sapere”, creando un diktat di pensiero che non ammette spazio per domande scomode o critiche profonde. Nascono gli “esperti infallibili” che obbligano ad una sorta di adorazione acritica, dove l’opinione pubblica accetta passivamente le narrazioni proposte senza una sana dose di scetticismo.

Ma la complessità delle questioni scientifiche dovrebbe innescare la nostra sete di conoscenza, spingendoci a porre domande più difficili e profonde, o siamo inclini a lasciarci cullare dalle narrazioni preconfezionate? C’è ancora spazio per un coinvolgimento critico e attivo?

Bauman, sociologo e filosofo polacco, ha definito la nostra società liquida, inquadrandola in un’epoca caratterizzata da una notevole mancanza di solidità nelle istituzioni e nelle relazioni. Le certezze di un tempo sembrano dissolversi, sostituite da una precarietà pervasiva. Zygmun Bauman ci invita a immaginare la nostra società come un liquido che si adatta costantemente alle nuove forme del contenitore che lo ospita. In questa prospettiva, le istituzioni sociali tradizionali diventano flessibili, incapaci di fornire la stabilità di un tempo.

Sempre Bauman parla di un’incessante instabilità individuale delineando una società in cui le opinioni degli individui, anziché svilupparsi in convinzioni salde, fluttuano al grido delle correnti dominanti radicalizzandosi. Siamo diventati consumi-sti sul piano intellettuale, cibandoci di superficialità condita a suon di morale e un pugno di like.  Non ci ritroviamo ad essere solo consumatori di beni, ma anche di ideologie.

Parallelamente, la declinata curiosità sottolinea la nostra tendenza ad abbracciare solo ciò che sembra appartenere al nostro cerchio, trascurando il potenziale arricchimento derivante dall’eterogeneità delle idee per un mero senso di appartenenza.

Dunque, una volta terminata l’epoca dei “grandi pensieri”, si ha di fronte, l’epoca delle ‘”grandi narrazioni”.

Viene,quindi, spontaneo chiedersi: come si fa non sopperire a questa realtà imposta che non scegliamo ma che non ci fa cogliere sfumature che ci orbitano attorno?

Kant ci esorta ad agire come «l’intellettuale del dissenso» che, con coraggio, si libera da tutto ciò che pretende di imporsi come assolutamente vincolante all’uomo ed ingaggia una battaglia culturale-politica contro il conformismo, contro l’abitudine, l’ovvio, il consolidato, ponendosi come educatore etico-politico di altri uomini che vengono sollecitati a «pensare da sé», a realizzare una vita degna dell’uomo.

In questo mondo di idee in costante evoluzione, potremmo giungere alla rivelazione che il vero spettacolo è la ricerca stessa, la continua rotazione della ruota della conoscenza.  Mentre chiudiamo il sipario su questo incessante spettacolo della mente, lasciamo il pubblico con domande sospese nell’etere, come bagliori di fuochi d’artificio in una notte stellata.

La democrazia della domanda danza veramente nella libertà, oppure è prigioniera in subdole reti di conformità? E il Circo della Conoscenza, è uno spettacolo che ci illumina saggiamente, o forse è solo un inganno brillante di luci accecanti? Ma, soprattutto, davanti a queste luci abbaglianti, socchiudendo un po’ gli occhi, non si fondono forse in un tutt’uno indistinguibile?