contenuto a cura di
Francesco Rossi
Per molti cittadini il 1° gennaio del 1999 è un giorno qualunque, uno dei 365 come da calendario. Apparentemente, però. Perché quel di c’era chi festeggiava il compleanno, chi ricorrenze varie ( lavorative
o di cuore). Chi magari alle Maldive beatamente in vacanza piuttosto che a sciare in qualche rinomata località. In realtà è una data che cambierà per sempre il destino di tutti gli italiani. Sarà un cambiamento nefasto e devastante avvenuto sulla loro pelle, a brucia pelo. Venticinque anni fa vedeva per la prima volta luce la moneta unica dell’Ue, ovvero l’euro. Il debutto avvenne solo nei mercati finanziari, una sorta di collaudo prima del battesimo ufficiale che si concretizzerà tre anni più tardi. Un quarto di secolo che il Bel Paese ha pagato a carissimo prezzo. Quel giorno l’Italia, guidata da Romano Prodi a Palazzo Chigi e da Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale (lo stesso Ciampi che 7 anni prima, da numero 1 della Banca d’Italia, accettò tutti i parametri di Maastricht compreso il cambio rapina) entrò ufficialmente nella zona euro monetaria. In silenzio, quasi in punta di piedi, senza chiedere il consenso ai cittadini come prassi democratica vorrebbe quando c’è in ballo il futuro dell’intera Nazione. Entrò sicuramente truccando i conti, ed imponendo un euro tassa con la promessa che sarebbe stata restituita. Col piffero. “Con l’euro lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno di più”, disse un raggiante mortadella subito dopo il taglio del nastro. Purtroppo per lui, ma soprattutto per gli italiani, le cose sono andate esattamente in maniera opposta e contraria. All’origine del male sicuramente il folle cambio lira/euro con cui il gatto e la volpe hanno accettato il passaggio di consegne: 1936,27 lire per 1 euro. La conseguenza naturale, e quasi logica, è stata quella della conversione 1 euro = 1000 lire. Tutto ciò ha comportato un dimezzamento reale della nuova moneta e l’inevitabile aumento dei prezzi di tutti i beni primari e non, con il potere d’acquisto delle famiglie notevolmente ridotto in quanto la stessa conversione non è stata “applicata” anche agli stipendi. Quei pochi stipendi ancora rimasti, vista la grave crisi occupazionale che ha investito l’Italia. Non lavorare per niente, altro che un giorno di meno. Intanto chi a gennaio del 2002 (anno di introduzione definitiva) guadagnava 2000 milioni di lire si è ritrovato esattamente la metà il mese auccessivo, ovverosia 1000€ e spiccioli. Negli ultimi 20 anni i prezzi sono aumentati del 33,4% al fronte di un tasso di inflazione annua pari al 3,8%. Basti pensare che nel 2001 per un caffè al bar bastavano 0,46 centesimi di euro e circa 5,50 euro per una pizza. Un caro vita fuori controllo che sembra non avere fine. La differenza di tasso applicato tra vecchio e nuovo conio (Germania a parte) è stata oggetto di discussione in quasi tutti i Paesi
aderenti scatenando forti polemiche e accuse nei confronti delle autorità monetarie ree di non aver tenuto conto dei meccanismi psicologici di scambio delle valute e quindi di avere contribuito in maniera determinate all’indiscriminato aumento generale dei prezzi. Ad aggravare una situazione già di suo sbagliata in partenza ci si è messo anche il fattore storico: una nuova moneta unica può funzionare quando il contesto socio-politico in cui è destinata a circolare è ben strutturato e non presenta grandi divari. L’euro invece è stato catapultato in un grande calderone all’interno del quale c’erano 27 ingredienti tutti diversi tra loro. Economie, industrie, tradizioni, culture ma soprattutto PIL. Grandi Nazioni di 60 milioni di abitanti e piccoli centri. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: dopo un quarto di secolo l’amalgama non è ancora stata trovata. Si procede a singhiozzo, a tentoni. L’Ue è diventata il serbatoio dei detentori della vera ricchezza che hanno creato sponsorizzando il falso mito del sogno europeo, istruendo a dovere politici e giornalisti a portare avanti, ad ogni costo, la narrazione europeista. Si è voluto far credere alle masse che di fronte alle ripetute crisi fosse necessaria “più Europa”. Invece si combatte sempre per risolvere dei problemi che senza la moneta unica (e di conseguenza l’Ue) non ci sarebbero. In Italia invece si combatte anche contro il divieto di poter solo pensare (figurarsi discutere) la possibilità di un piano B nel caso in cui dovesse andare tutto a ramengo. Una ottusaggine dovuta in larga parte a quella forma di sudditanza e sottomissione nei riguardi dell’UE che ha sempre rappresentato il tratto distintivo del nostro rapporto con le istituzioni europee. Discorso tabù, nonostante fior di economisti di fama internazionale, oltre che premi Nobel, abbiamo da sempre espresso pareri negativi sulla moneta comunitaria. Pensiamo a Milton Friedman (da non confondere con Alan, giornalista economico di stampo neoliberista oltre che acerrimo nemico della libertà d’espressione), Amartya Sen, Joseph Stiglitz, Paul Krugman, Christofer Pissarides e James Mirrlees.
Ma anche Roger Bootle vincitore nel 2012 del Wolfson Economics Prize per lo studio di fattibilità economica sullo smantellamento della zona euro. Dominick Salvatore (professore alla Fordham University di New York), Rudi Dornbusch (già professore al Massachusetts Institute of Technology), Martin Feldestein (professore all’Università di Harvard). Insomma, pezzi grossi dell’economia sulla cui buona fede c’è poco o nulla di cui dubitare. Cosa che non si può dire di chi in Italia vieta qualsiasi forma di dialogo sul tema. Detto del drammatico quadro in cui si trova l’Italia da venti anni a questa parte, come stava il Bel Paese prima dell’arrivo dell’euro? Molto meglio, e non con le ossa rotte come oggi. Basta prendere in esame il prodotto interno lordo, il famoso PIL: tra il 1985 ed il 2001 era cresciuto di 482 miliardi di euro (+ 44%), mentre tra il 2002 ed il 2017 (cioè nei 20 anni successivi), di appena 31 miliardi ed un misero 2%. Lacrime amare anche per l’export da sempre colonna portante con il suo Made in Italy. Sempre tra il 1985 ed il 2001 era arrivato ad una crescita del 136,3%, mentre con l’avvento dell’euro, la corsa si è fermata ad un + 40,9% ossia meno di un terzo. Tutto ciò con pesanti ripercussioni su produzione industriale e occupazione. Analizzando i dati realizzati da Eurostat sui Paesi dell’Unione scopriamo che la produzione industriale rappresenta una vera zavorra per lo Stivale. Infatti nel periodo preso in analisi (1999-2017), non solo non si è registrata alcuna crescita della produzione, ma addirittura è calata del 5%. Nello stesso periodo Francia, Spagna e Germania (anche grazie al surplus commerciale) hanno visto crescere la loro produttività rispettivamente del 13% , 12% e 12%. A fare la differenza hanno contribuito forti e coraggiose
riforme sul lavoro, ciò che non è mai avvenuto in Italia facendo segnare il passo con la modernizzazione. L’euro è stato negativamente impattante anche perché, contrariamente a ciò che avveniva con la lira, non può essere oggetto di nessuna svalutazione monetaria. In passato questo trucco della lira debole consentiva all’Italia di colmare il gap innovativo e di essere competitiva nei mercati, oggi non più. Ma l’impressione di essere davanti ad un gatto che si morde la coda è molto forte. Le riforme costano, quella del lavoro ancora di più. Trovare il bandolo della matassa sarà un’impresa ardua perché bisogna mettere mani a tutto il sistema. Le imprese, strozzate dalle tasse, faticano a varare un piano di ammodernamento tecnologico. Dall’altro lo Stato alle prese sempre con il fardello dell’enorme debito pubblico, per lo più nelle mani di banche tedesche e mercati. Una situazione che tiene sotto scacco il Ministero del Tesoro riducendo ulteriormente il margine di manovra già abbondantemente stretto. E sono in arrivo il nuovo patto di stabilità e la restituzione dei soldi del PNRR, altro fardello che pende pesantemente sui conti degli italiani. La prospettiva è tutt’altro che rosea.