contenuto a cura di
Francesco Rossi
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Per gli amanti di coriandoli, balli in maschera e carri allegorici, se dici cento, la mente non può non andare alla ridente cittadina in provincia di Ferrara famosa per il suo carnevale. Ci sono poi i nostalgici del vintage televisivo, il cui ricordo li porta direttamente ad Iva Zanicchi ed il suo “Ok, il prezzo è giusto”. Ma se la stessa parola (con una declinazione diversa, evidentemente), viene pronunziata dalle parti di via Allegri – sede della FIGC- il rischio di essere colpiti da un attacco di orticaria è molto forte. Garantito il brivido lungo la schiena. Il perché è presto detto: 100 rappresenta il numero delle società calcistiche iscritte ai tre campionati professionistici italiani. Caso unico in tutto il panorama europeo. Un numero che anno dopo anno diventa sempre più insostenibile, e sempre più anacronistico, rispetto al nuovo taglio che il mondo del pallone, seppur a fatica, tenta di darsi. Trovare la giusta formula che vada bene per il new look è impresa tutt’altro che semplice in quanto, la visione futuristica su cui si basa il rinascimento, è alla prese con una guerra intestina di manifesti programmatici l’uno diverso dall’altro. Non tutto però è perduto poiché ad unire sotto lo stesso grido di allarme le varie anime di pensiero ci pensa il macigno dell’insostenibilità, diventato più brutto dell’Orco delle favole dei bambini. Un macigno carico di problemi e zavorrato da una mole debitoria che diventa ogni giorno sempre più pesante. Insostenibile, appunto. Il tempo stringe, la clessidra della sopravvivenza scorre inesorabile infischiandosene delle divisioni e dei capricci degli attori parti in causa. Se i copioni sono tanti, il finale è uguale per tutti. Lo sanno bene Gravina e la sua Governance i quali già da una paio di anni propongono la strada maestra da cui intraprendere il viaggio delle riforme: una bella sforbiciata al numero di squadre, partendo dalla serie A, attualmente formata da 20 società. Idea accattivante, per certi versi anche affascinante, che si è subito arenata sugli scogli del mare magnum delle cosiddette piccole che vedrebbero notevolmente diminuito il terreno di gioco del massimo campionato. Non essendo possibile tornare alle 16 formazioni degli anni ‘80, 18 potrebbe essere il giusto compromesso in virtù anche dei tanti impegni che di fatto vanno ad occupare tutta la settimana: in pratica si gioca dal lunedì alla domenica senza sosta di continuità. Possono i club di seconda fascia bloccare qualsiasi iniziativa che non vada loro a genio? Possono, innanzitutto per essere in maggioranza nella Lega serie A rispetto alle big, se poi a tutto ciò si unisce tutta la Lega B con il suo 5%, la Lega Pro col 17% e financo la Lega dilettanti che porta in dote un bel 34%, il gioco è fatto. La cosa che ha dell’incredibile è che la quarta serie (il CND) ha un potere decisionale quasi tre volte maggiore rispetto alla serie a che si ferma al 12%. Un taglio generale di posti ovviamente non piace a nessuno e con questo chiaro di luna trovare un accordo è più difficile che vedere una nevicata agostana a Lampedusa. Un modo per tentare di uscire da questo empasse ci sarebbe, ovvero, togliere l’obbligo di intesa in cambio di accordi. Quello della riduzione del numero di squadre è chiaramente il primo mattoncino su cui poi va edificata tutta la grande riforma del Sistema calcio. E’ ovvio che tagliare per poi lasciare tutto come adesso non avrebbe alcun senso, indipendentemente dal numero. In una recente intervista il presidente del Torino Urbano Cairo si è scagliato contro il governo per via dell’abolizione del decreto crescita e soprattutto per i mancati aiuti al mondo del calcio (cosa avvenuta per il cinema) durante i tre mesi di stop forzato che hanno notevolmente inciso sui conti già disastrosi. Detto che il decreto crescita è stato un grosso aiuto per tutto il comparto del pallone, in quanto permetteva di dimezzare del 50% le tasse sugli ingaggi per tutti i professionisti che facevano rientro in Italia, l’errore è stato ancora una volta dei dirigenti, i quali, invece di studiare un piano organizzativo di contenimento dei costi, e di conseguenza un piano di rientro sul monte debitorio, hanno destinato il risparmio su cartellini e ingaggi tralasciando tutto il resto. Ecco perché Cairo sbaglia. Dopodiché è anche vero che il calcio con il suo 1,3 miliardi di contributi fiscali – e con un impatto sul PIL italiano dell’11,1%- è uno dei primissimi
contribuenti dell’Agenzia delle entrate, ma ciò non toglie che se gli aiuti vengono gestiti in maniera sbagliata il governo non possa intervenire con decisione. Intervenire per migliorare non vuol dire “affossare il calcio”, sarebbe da autolesionisti voler affossare chi ogni anno riempie d’oro le casse dello Stato. Il governo per bocca del Ministro Abodi chiede che venga presentato un piano industriale e orgonico dettagliato per confrontarsi e capire come potere trovare un punto d’unione. Come per esempio quello sulla spinosa questione del Betting, le scommesse sportive. Nel solo 2022 si è registrato un giro d’affari pari a 13,2 miliardi che ha portato nei conti Stato la bellezza di 2 miliardi e nulla in quelli del club a cui viene anche negata la possibilità di una sponsorizzazione sulle maglie. Il piano industriale di via Allegri non può assolutamente prescindere da alcuni punti focali e determinanti per la sopravvivenza del calcio stesso: riduzione dei costi di gestione soprattutto quelli relativi al personale (cartellini, ingaggi e spese di procura, li stipendi oggi incidono per l’84% degli introiti); investimenti in infrastrutture e nei settori giovanili.
Introdurre una tax credit anche nel calcio che dia il là ad una vera e propria rivoluzione copernicana. Qui però entra in gioco il governo. Investire sulle infrastrutture e sulla realizzazione di nuovi impianti (non più rinviabile), è un’impresa tra l’arduo ed il disperato a causa della folle burocrazia che si ritrova a dover affrontare chi abbia voglia di avventurarsi in questo percorso. Eccetto pochissimi casi, tutti gli stadi italiani sono vecchi, obsoleti e scomodi. Nella sola serie A una quindicina di progetti sono chiusi da anni nei cassetti dell’iter in attesa di un segnale. Il ministero dello sport deve dare la svolta definitiva soprattutto per non concedere più alibi a Federazione e club. Avere degli stadi nuovi e funzionali aiuta e agevola notevolmente la vendita del prodotto nei mercati esteri. Guardare anche dalla TV una partita casalinga dell’Hellas (per fare un esempio di stadio scempio) è una vera tortura che va ad incidere in maniera consistente nel tavolo delle trattative. Da un lato lo sport, il calcio, dall’altro il governo. Una partita doppia che non può avere né vinti, né vincitori. Entrambe le parti devono vedere accolte le proprie richieste, unica strada possibile per evitare il crack definitivo. Ma il tempo scorre e la clessidra della sopravvivenza sta per esaurirsi.