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Valentina Marsella
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Il 7 giugno scorso, a seguito degli ultimi e ripetuti episodi di femminicidio, il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge che prevede tra le diverse misure: l’inasprimento delle pene, l’applicazione automatica del braccialetto elettronico, una distanza minima di cinquecento metri in caso di divieto di avvicinamento, processi più veloci, arresto in flagranza differita per stalking.

Per comprendere meglio le norme introdotte dal disegno di legge e soprattutto se le stesse siano efficaci o se rappresentino una dichiarazione d’intenti fine a sé stessa, ne parliamo con l’avvocato Guido Camera.

Avvocato penalista e, dal maggio 2021, Presidente dell’Associazione “Italiastatodidiritto” svolge un’intensa attività didattica ed è autore di numerose pubblicazioni.

D. Sull’onda del caso Tramontano il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge di quindici articoli che introduce nuove norme sul contrasto alla violenza sulle donne e alla violenza domestica. Non entrerà in vigore subito, ma dovrà essere approvato da Camera e Senato, e nel frattempo potrà subire modifiche. Non era sufficiente il Codice rosso?

Credo che, quando si parla dell’argomento, si debba prima di tutto avere ben presente che il femminicidio è un fenomeno criminale e sociale grave, e purtroppo diffuso nel nostro Paese. Se si leggono i dati pubblicati dalla Commissione Parlamentare di inchiesta sul femminicidio e sulla violenza di genere nella scorsa legislatura, si può riscontrare che, nel biennio 2017/2018, le vittime di femminicidio sono state ben diciannove. Più della metà sono state uccise dai loro partner, mentre il 12,7% da ex partner. Solo il 15% di queste povere vittime aveva in precedenza denunciato il proprio compagno. Un terzo degli autori dei reati aveva precedenti penali e più di un quarto era dipendente da alcol, droghe, psicofarmaci o altre sostanze.

La matrice culturale che sta alla base di questo drammatico fenomeno è inquietante. Sempre dagli atti della Commissione Parlamentare è spiegato che la violenza è scatenata dal rifiuto della vittima del modello o del ruolo sociale impostole da un uomo “per il solo fatto di essere una donna” o dalla “condizione di totale soggezione cui era sempre stata costretta”. Detto questo, mi sembra evidente che il problema non possa essere risolto solo con l’ennesima modifica legislativa, ma soprattutto con un grande investimento sociale e culturale, che non si esaurisca al diritto penale.

D. Il governo non ha diffuso il testo del disegno di legge, ma ne ha elencato le misure principali. Priorità ai processi sulla violenza contro le donne, arresto in flagranza differita e detenzione in carcere per chi viola i domiciliari e le regole sull’allontanamento. Una “stretta” che può davvero porre un freno a questo terribile fenomeno?

Temo che, da sola, non possa risolvere il problema. Le nuove norme – al di là della loro perfettibilità giuridica, e della loro sostenibilità “organizzativa” da parte della macchina giudiziaria – devono infatti misurarsi con un contesto culturale e sociale complesso, che esige, per questo motivo, delle indagini delicate, che devono essere svolte con grande professionalità per identificare chiaramente il movente del “reato spia”. Purtroppo, nella mia esperienza, non è spesso così. Anzi, vedo molta approssimazione, e assisto magari ad archiviazioni di fatti potenzialmente gravi dovute a indagini svolte male.

Va anche ricordato che molto spesso le vittime non denunciano, e quando lo fanno non trovano adeguato sostegno dai parenti, amici, vicini di casa, colleghi, medici, psicologi, operatori dei servizi sociali e, in generale, da chi è deputato a farlo. Purtroppo, questo scenario emerge chiaramente dai lavori della Commissione Parlamentare. Lo dico perché la sede giudiziaria è l’ultimo tassello del percorso che porta a identificare e perseguire un femminicidio: prima c’è tutto un difficile lavoro, che non può fare il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, per fare emergere il problema nel contesto in cui vive la vittima, e farle prendere consapevolezza del rischio che corre. Il sostegno della sua comunità, in questo, è determinante.

Se non ci sarà questo cambiamento, credo che possiamo anche prevedere la pena di morte – lo dico come provocazione – ma non cambierà nulla. Anzi, all’interno di un rapporto “malato” tra carnefice e vittima, all’interno di una relazione magari con figli, l’idea di fare rischiare il carcere al compagno può essere un motivo in più per la donna per non denunciare.

D. Il disegno di legge punta soprattutto alla prevenzione dei cosiddetti “reati spia” che possono poi degenerare in fatti più gravi. Si tratta di imporre il cosiddetto cartellino giallo all’uomo violento, come lo ha definito la ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella?

In linea teorica, il principio è condivisibile. Il punto è che non basta un cartellino giallo, senza un intervento tempestivo dei servizi sociali. Come detto in precedenza, molti degli autori di questi reati hanno problemi di alcol o sostanze stupefacenti. Dunque, il problema è più ampio. Ed è un problema molto complesso, perché l’attività di recupero sociale rispetto al disagio è difficile, lunga e richiede pazienza e professionalità.

Tradotto in termini economici, vuole dire che lo Stato deve impegnare tante risorse, sia relativamente alla fase della prevenzione, sia dell’accertamento giudiziario delle responsabilità. A quanto ho capito, invece, queste nuove norme non sono accompagnate da stanziamenti di fondi per il Welfare o il sistema giudiziario. Il rischio è perdere l’occasione per realizzare quel grande investimento culturale giustamente auspicato dal Ministro Nordio.

D. Anche i giudici avranno termini stringenti per la decisione sulle misure cautelari in caso di omicidio o tentato omicidio. Come si contempera la norma di fronte a un sistema giudiziario rallentato dalla mole di provvedimenti e processi dovuto alla scarsità di risorse?

L’idea di risolvere i problemi dando priorità ad alcune cause nei ruoli mi ha sempre appassionato poco, perché poi nella prassi si deve misurare, come giustamente dici, con un numero impressionante di procedimenti penali e con risorse sempre ridotte all’osso. Io ho sempre pensato che un investimento deciso sulla giustizia riparativa – dunque, anche sulla Pubblica Amministrazione che si deve occupare dei rilevanti aspetti sociali del tema – unito a un’amnistia per reati di minore allarme sociale, dove non ci sono conseguenze civili e amministrative del reato, potesse essere una soluzione efficace per dare modo ai magistrati di concentrarsi sui fatti che realmente meritano di essere affrontati dall’ordinamento penale. Io sono un ottimista per natura.

Avendo sempre apprezzato il pensiero del Ministro Nordio sul tema, prima che iniziasse questa sua avvenuta politica, voglio pensare che abbia il coraggio di affrontare questo spinoso argomento. Ma so bene che non è facile: non tanto perché ci possano essere ricadute negative sul sistema giudiziario, che ne avrebbe anzi solo beneficio. Mi preoccupano gli aspetti politico-comunicativi, visto che qualcuno potrebbe proditoriamente far passare il messaggio che si lascia spazio all’impunità. Ma se il sistema rimane come oggi, sarà sempre troppo carico, e non potrà mai funzionare bene, nonostante le migliori intenzioni degli operatori del settore.

D. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha definito le nuove misure una “operazione culturale” che deve iniziare dalle scuole fino ad arrivare nelle carceri. Ma i centri antiviolenza bocciano il disegno di legge che cavalcherebbe solo l’onda emotiva dell’ultimo femminicidio senza affrontare il problema. L’Italia continua a essere il Paese della legislazione emergenziale?

Io credo che la politica, quando emerge un grave problema, abbia il dovere di intervenire, dando un segnale. Questo, oggi, è il sistema, e dobbiamo tenerne conto, anche se magari non ci piace: i media cavalcano gli episodi di cronaca, la comunità si indigna e le istituzioni si attivano per evitare di essere accusate di inerzia. Del resto, il detto “piove, Governo ladro”, è vecchio come il mondo.

Però la grandezza di chi si impegna per la cosa pubblica è quella di dare continuità alle iniziative, pianificando da tutti i punti di vista le modalità con cui raggiungere gli obiettivi. È un percorso lungo e difficile, soprattutto quando lo Stato non ha risorse economiche, e purtroppo ci sono problematiche culturali e sociali tanto inaccettabili, quanto difficili da estirpare. Questa mi sembra la priorità, soprattutto verso i giovani, cui va fatto capire che uno dei principi più belli e importanti, nello Stato di diritto, è quello di uguaglianza. A maggior ragione all’interno di una coppia, dove accettare la soggezione di un partner verso l’altro è una negazione brutale dei nostri valori costituzionali.