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Se è vero che l’uomo è l’unico animale per cui i linguaggi di comunicazione non verbale hanno un’importanza residuale, non è affatto scontato che le capacità di comunicazione, verbale (orale, scritta) e figurativa, rendano più facile la comunicazione tra simili.
Numerosi sono i tranelli che si nascondono tra le pieghe dei linguaggi e che possono rendere difficile, se non del tutto inutile, la comunicazione di pensieri e sentimenti tra esseri umani. Uno di questi tranelli è il “giudizio”. “A mio giudizio”, “sospendere il giudizio”, “lo giudico bravo”, “chi siamo noi per giudicare”, “non lasciare che nessuno ti giudichi”.
Il giudizio e l’atto del giudicare evocano subito l’attività propria del giudice, un soggetto terzo munito di autorità pubblica che, da uno scranno posto più in alto rispetto alle parti, con il suo giudizio decide su contese, libertà e patrimonio dei comuni cittadini. Quindi giudizio come sentenza decisoria con un impatto sugli individui, munito di forza pubblica e quindi legalmente coercibile.
Vi sono poi il giudizio estetico e quello tecnico: il critico d’arte giudica opere e artisti emettendo giudizi fondati sull’autorevolezza (pur senza autorità) della propria conoscenza e della propria sensibilità. L’ingegnere, sulla base della propria preparazione tecnica, giudica pericolante un fabbricato (che magari non crollerà mai, perché il giudizio tecnico non è un vaticinio, o una sentenza, ma più una stima probabilistica).
Ma il giudizio è appannaggio di particolari categorie di persone o è un democratico strumento a disposizione di chiunque? I giudizi tecnici ed estetici sono appellabili e rivedibili o definitivi ed ineluttabili? E, ancora più alla radice, c’è differenza tra il giudizio estetico di un critico d’arte sul capolavoro di un artista e il giudizio dell’avventore di un bar sulla correttezza delle scelte dell’allenatore di una squadra di calcio nel corso di una gara?
Non è un caso che giudizio e intelletto siano considerati sinonimi. Intelligere vuol dire comprendere le relazioni tra gli stimoli del mondo esterno e creare modelli interiori esplicativi di tale mondo che ci circonda. Il giudizio non è altro che questo, in fin dei conti.
Ciascuno di noi esercita, quindi, incessantemente, le proprie facoltà di giudizio. Ovviamente, man mano che, giudizio dopo giudizio, si costruisce una mappa della realtà si tende a posizionare ogni nuovo pezzetto di conoscenza all’interno della propria (spesso unica) mappa anche se, a volte, acquisizioni successive ci fanno spostare un pezzo da una parte all’altra (purtroppo non funziona come con i puzzle, in cui ti rendi conto quasi subito se stai per mettere un pezzo nel posto sbagliato).
In questo incessante lavorio, il confronto con gli altri è non solo utile, ma inevitabile. La socialità umana ci impedisce di essere del tutto impermeabili al confronto con i giudizi altrui che ascoltiamo continuamente anche senza volerlo, e che spesso cerchiamo leggendo un libro o un giornale, ascoltando un podcast o un talk show; addirittura intraprendendo percorsi di studi in materie spesso costituite dalla stratificazione alluvionale di giudizi incrociati emessi da altri individui nel corso dei secoli. È tramite questo meccanismo di trial and error che ciascun individuo umano trova, costruisce e ristruttura la propria strada nel mondo.
Quindi tutti emettiamo giudizi, in continuazione. E i giudizi sono necessariamente tutti sempre rivedibili alla base di emergenze e giudizi successivi.
Ma quindi tutti i giudizi sono uguali? Evidentemente no: se è vero che chiunque guardando una partita di baseball può giudicare il valore e l’efficacia delle azioni di gioco dei contendenti, è anche vero che il giudizio di chi vede la sua prima partita, e magari da sempre segue assiduamente un altro sport è certamente meno autorevole… sempre ammesso che conosca le regole del gioco, quindi la griglia logica elementare sulla cui base poter valutare e quindi giudicare i fatti della partita (così come prima di emettere giudizi sulla staticità di un edificio occorre avere più di un’infarinatura di fisica).
Molti giudizi sono quindi, molto semplicemente, sbagliati, perché partono da presupposti errati, osservazione e analisi insufficienti, preconcetti, etc. E questo succede anche agli “esperti ed implica che il chilometraggio non è affatto l’unico parametro cui commisurare l’autorevolezza di un giudizio. E, d’altra parte, anche tra storici, tra ingegneri, tra allenatori di calcio, tra critici d’arte di pari preparazione e anzianità vi è ampia divergenza di giudizi sugli stessi fenomeni: quel ponte reggerà o crollerà? Quel tizio è un grande artista o un onesto artigiano? Le sue opere traboccano di significato o sono mere riproposizioni di maniera? L’allenatore è bravo o ha solo la fortuna di gestire bravi giocatori? In questi giudizi, e nella loro critica e selezione, entrano in campo questioni molto complesse che non è questa la sede per approfondire.
Ma resta vero che ci sono poche cose che l’uomo teme più del giudizio altrui, e che – forse per questo – il più frequente giudizio sui giudizi altrui è la negazione del diritto stesso di giudicare: “nessuno ha il diritto di giudicare”. Si tratta di una posizione legittima, sensata o di un nonsense? Come sarebbe il mondo senza giudizi?
Dalle premesse disordinatamente sparse fin qui, possiamo concludere subito che chiunque ha il pieno diritto di osservare, esaminare e quindi giudicare qualunque fenomeno esterno, quindi anche qualunque altro comportamento umano, individuale o di gruppo. E, riteniamo (per ragioni che tanti filosofi liberali e sostenitori della società aperta hanno esposto meglio di quanto potremmo qui fare noi), abbia il pieno diritto di esprimere i propri giudizi sul mondo e sul prossimo, sempre – ovviamente – fermo il rispetto della dignità di ciascuno.
Quindi il “nessuno mi può giudicare” è una risposta infantile buona solo per sfuggire al confronto. Infantile e pericolosa. Per difendere la legittimità delle proprie azioni e posizioni basterebbe invocare la libertà: rispondiamo “faccio come mi pare” anziché “non potete giudicarmi”. Si tratta – a ben vedere – di due posizioni diametralmente opposte: la prima è basata sulla difesa della libertà individuale, la seconda sulla pretesa di limitazione della libertà altrui o, non meno peggio, su un relativismo talmente esteso da annullare il valore di ogni gesto e ogni possibilità di dialogo.
Perché sostenere l’illegittimità del giudizio corrisponde, nella migliore delle ipotesi, alla negazione di una realtà fattuale (cioè il mero fatto che tutti giudicano esercitando la propria facoltà di giudizio, cioè il proprio intelletto) e, nella peggiore, la rassegnazione alla totale impossibilità della comunicazione umana.
L’esternazione di un gesto (parlare, scrivere, creare opere d’arte, ma anche pubblicare un post o condividere un meme sui social) non è altro che gettare un ponte alla comunicazione con gli altri, che interagiscono con il gesto filtrandolo ed interpretandolo con il loro giudizio; lanciare un significante affinché chiunque lo riceva ne tragga un significato. Se elaborare un giudizio è impossibile il gesto è del tutto vano.
Oppure, più tristemente, non è il giudizio ad essere impossibile o illegittimo, ma è la sua espressione ad essere bandita, perché sgradita o non funzionale a certe logiche e programmi figli di visioni politiche contrarie alla naturale libertà universale di giudizio ed espressione, e la conseguente enorme quantità di giudizi nell’agorà pubblico, temperata dalla diversa autorevolezza di ciascun giudizio. Perché alla base dei meccanismi fin qui descritti vi è una competizione costante tra i giudizi, che genera gerarchie di autorevolezza sempre mutevoli e mai assolute, che non garantiscono affatto tribune privilegiate determinate – una volta per tutte – da appartenenze di vario tipo (politiche, accademiche, identitarie, nazionali, etc.).
A scanso di (ulteriori) equivoci, è chiaro che i particolari giudizi che costruiscono la conoscenza scientifica sui meccanismi che governano la natura vanno costruiti e scrutinati secondo i paradigmi del metodo scientifico, per poter essere catalogati come “conoscenza scientifica”. Ma è altrettanto ovvio che ciò valga per le vecchie “scienze esatte”, nel cui club esclusivo nessuna delle “scienze umane” può, ahimè, pregiarsi di appartenere.
In conclusione, l’equivoco sui giudizi e sul loro valore è importante perché causa (nelle società odierne, forse, più che mai) due opposte e pericolose tentazioni che minano alla base la convivenza e il progresso civile in una società aperta: l’annullamento della gerarchia di autorevolezza dei giudizi (uno vale uno: il mio giudizio vale quanto quello di chiunque) e, dall’altro, quella di traslare definitivamente l’autorevolezza dal giudizio al suo autore, cristallizzandone l’autorevolezza in autorità. Se la prima tentazione è alla base delle blandizie populiste, la seconda mira a conferire un’aura di intangibilità ed infallibilità (ipse dixit) a talune fonti, trasformandone i giudizi in sentenze, trasformando un esperto in un guru. La società che si vuole aperta deve chiarire l’equivoco e lavorare per tenerlo lontano costantemente, se vuole evitare entrambe le opposte (formidabili) minacce.