contenuto a cura di
Francesco Rossi
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Gli italiani, nell’immaginario collettivo tutt’oggi ancora in voga, sono visti e percepiti come santi, poeti e navigatori, ma c’è da dire che anche l’arte dell’arrangiarsi e l’ingegno rappresentano da sempre marchi di fabbrica degli eredi di Machiavelli. 

Soprattutto per coloro che hanno deciso di lasciare la Madrepatria: i cosiddetti expat, presenti in quasi tutto il globo terrestre con il loro carico di pane, amore e fantasia. Un lungo viaggio senza ritorno che spesso e volentieri mette radici in quello che da secoli è il fiore all’occhiello del Bel Paese: la cucina. 

In primo luogo, nelle emigrazioni post-guerra: li si è registrato un vero e proprio boom del cibo principalmente nelle Americhe. Pizzaioli, pasticceri, cuochi. Tutta gente partita con la valigia di cartone diventata molto presto la cassaforte delle certezze grazie all’eccellente “bagaglio” di conoscenze e competenze lasciate in eredità dalle nonne. 

Attività ancora oggi al servizio dei buongustai dal palato fine, ma anche i girovaghi di nuova generazione molto spesso si buttano nella ristorazione, una ristorazione 2.0 per via di nuove scoperte e nuovi sapori. Si, ok ma, al netto delle Next Gen, un italiano in vacanza all’estero che abbia voglia di un bel piatto di pasta piuttosto che di una pizza riuscirà davvero a sentirsi a casa? La risposta è, ni. Un’incrinatura a due teste per via di moltissime sfaccettature, alcune “giustificabili” altre meno. Una su tutte le contraffazioni. 

Chiunque abbia avuto la fortuna di viaggiare in più posti del mondo si è certamente imbattuto nella pizzeria “Bella Napoli” o nel ristorante “‘O sole mio”, salvo rimanere delusi alla vista del menù e scoprire che l’unica cosa di italiano è l’insegna. Piatti improbabili tanto nei nomi quanto negli ingredienti, con errori-orrori in quella che dovrebbe essere la Regina delle pizze, ovvero la Margherita. Chi la chiama Margarita, chi Margaritas, chi Margarina. E che dire della Napolitaine? O la pizza Pepperoni che, contrariamente a ciò che si possa pensare, non sono peperoni ma una varietà di salame.

Errori questi che non riguardano solo i finti italiani, ma anche antichi locali, oggi in mano a seconde e terze generazioni, aperti dai migranti degli anni ‘50 per lo più analfabeti o comunque con gravi carenze grammaticali. Carenze evidentemente tramandate a figli e nipoti ignari del tutto. Ma dalla svista su carta all’esecrazione da piatto il passo è brevissimo e coinvolge tantissime pietanze della nostra dieta. Come il “famosissimo” Parmesan, un tarocco in piena regola del parmigiano reggiano, la cui produzione proprio non si riesce a fermare. Come i linguini al pesto o i fusili al pollo. Ci sta poi la “matriciana” con cipolla e peperoncino ma soprattutto la madre di tutti gli scempi: la carbonara con panna e bacon e addirittura anche con burro. Chi scrive, proprio qualche giorno fa, si è imbattuto in un ristorante italiano (con personale italiano) il quale proponeva questa versione, con la convinzione di spacciarla per piatto tipico italiano. 

Anche in questo caso nomi dei piatti scritti in italiano e ingredienti in lingua locale oltre alle solite invenzioni come gli spaghetti (spagetti in tantissimi ristoranti) alle verdure, una roba che in Italia non si trova neanche sul vocabolario. Immancabile poi la Milaneisa di pollo, un crack per i ristoratori esteri italiani, così come la parmigiana di pollo (chicken parmesan) o il riso. Pollo ancora protagonista negli gnocchi con panna. 

Non possono ovviamente mancare le fettuccine Alfredo, si trovano in tutte le latitudini. Un sugo molto cremoso al formaggio che impazza tra gli americani. Anche al simbolo (quasi cristiano) dell’italianità, ovvero gli spaghetti, viene riservato un trattamento da denuncia. Li troviamo con i calamari fritti, con il ketchup, al Donut, con gamberetti, wurstel ed una bella coscia dell’immancabile pollo. Alla napoletana con ingredienti non propriamente identificati, molto di moda pure la versione con le polpette, il che visti i precedenti è quasi un piatto raffinato.

Tra le stranezze da annoverare anche il risotto al limone con salmone affumicato, pizza con l’uovo sodo, lasagna meatballs, penne con semi di girasole e bocconcini di mozzarella. Non di meno i ravioli di ricotta e rucola con salsa di miele e senape. Salsa di miele che ritroviamo sulla pizza Chèvre miel (in una pizzeria Bella Napoli).

Naturalmente onnipresente la pizza hawaiana, forse uno dei piatti più assurdi ed ingiustificabili in circolazione, così come il sugo pesto e gorgonzola. Immancabile anche la panna (da anni uscita dalla cucina italiana), la si può trovare con pennette e piselli, mischiata col pomodoro, nei cannelloni al posto della besciamella, col salmone in una miscela davvero alquanto discutibile come la fecola con osso buco. Sempre in tema di carne qualche ristoratore è riuscito ad “uccidere” la Chianina servendola con il Chimuchurri, uno scempio.

Insomma, una varietà infinita di piatti che poco o nulla hanno a che fare con lo Stivale ed il suo prezioso Made in Italy,

Ricordiamo che il falso vale ogni anno novanta miliardi, soldi letteralmente scippati ad una icona intramontabile dell’Italia. Dove alla voce falso, evidentemente, non troviamo tutti quei ristoratori che col tempo hanno rivisto un po’ le ricette rispetto alla tradizione. Perché allora lo fanno? La risposta è quasi del tutto unanime: “il 90% della nostra clientela è locale per cui bisogna accontentare i loro gusti e le loro preferenze”. Il che dal punto di vista imprenditoriale non fa una grinza.

Potrebbe però esserci una soluzione che accontenti tutti e cioè il doppio menù: uno classico italiano che rispetti quella che forse è la più antica tradizione, ed uno per le bocche ed i palati del territorio che ospita l’attività. Mischiare tutto – sapori e ricette diverse- genera solo confusione e rischia di creare veri e propri mostri. 

La cucina italiana è candidata come Patrimonio mondiale dell’UNESCO e deve essere trattata col rispetto che merita. Che io mi trovi a Dubai piuttosto che a Sidney se apro un ristorante italiano senza scendere a compromessi. Sfruttare il marchio per acchiappare clientela propinando poi tutt’altro non è assolutamente ammissibile né corretto nei confronti di chi è convinto di mangiare italiano. Ne vale anche per la credibilità italica nel mondo.