contenuto a cura di
Francesco Rossi
Il buono, il brutto ed cattivo non è solo il grandissimo capolavoro di Sergio Leone arrivato nelle sale
cinematografiche nel 1966. Perché un anno dopo, esattamente il 22 ottobre del 1967, negli studi RAI della
Domenica Sportiva accade qualcosa che cambierà per sempre il copione della storia del calcio (il buono).
Da li in poi niente sarà più come prima. Autore inconsapevole dell’epocale rivoluzione, Carlo Sassi, che per la
prima volta presenta all’Italia, ed al mondo intero, la moviola. Uno strumento che avrebbe per sempre
cambiato il modo di vedere e commentare le partite.
In cosa consisteva questo dispositivo innovativo? Permetteva la disamina perfetta di qualsiasi azione di una partita, così da analizzare eventuali errori arbitrali. Se lo scopo era quello di rendere più facile il lavoro dei giudici di gara, purtroppo l’ambizione è miseramente fallita e naufragata tra mille contraddizioni perché, oltre a non agevolare nulla, ha innescato e dato il là alla stagione delle feroci polemiche e delle contestazioni (il brutto) sempre più crescenti che sono andate di pari passo con l’esplosione della passione per il calcio in Italia.
A dare manforte al mare magnum della gazzarre arriva qualche anno più tardi Aldo Biscardi con il suo “Processo del Lunedì”. Aldone nazionale, sempre più eccitato dal clima da tutti contro tutti che si registra nei suoi programmi, decide di intestarsi una battaglia da patriota del pallone: mettere la moviola anche in campo, a bordo campo. Un monitor tra le panchine, tra un fischio del Trap ed una imprecazione romana di Sor Carletto Mazzone. Ne fa una questione di principio, Biscardone, che vede in quel piccolo display una sorta di Risorgimento del calcio italiano dopo le macerie di calciopoli. Alla fine avrà ragione lui, pur non riuscendo a godersi la vittoria.
L’ora X del VAR (il cattivo) – questo il nome scelto- scatta agli albori della stagione calcistica 2017/18 su
forte spinta del Presidente della FIFA Gianni Infantino. L’Italia entusiasta dice subito di si a quello che
inizialmente doveva essere un esperimento. VAR, ovvero Video Assistant Referee, rigorosamente in english
style con buona pace del Governo Meloni. Ideato e studiato come panacea di tutti i mali del calcio giocato,
figli per lo più di interpretazioni ad personam delle ex giacchette nere, (diventate nel frattempo verde fluo
come un evidenziatore), la speranza era quella di eliminare errori e polemiche per lasciare spazio a pacifici
post partite. Se non esattamente un azzeramento totale, qualcosa che gli somigliasse. Non proprio la classica moviola in campo, ma qualcosa di molto più tecnologico, perché la chiesa andava messa al centro del villaggio per far si che tutti potessero vedere, e in qualche modo partecipare, sembra ombre e sospetti.
Chissà, magari qualcuno sperava di vedere dei robot telecomandati in stile ballerine di “Non è la RAI”:
“questo è rigore, questo non è fuorigioco”. Soprattutto in virtù della grande macchina organizzativa messa
in campo: sede operativa a Lissone, immense sale con monitor posizionati ad ogni angolo che scrutano ogni
millimetro dell’erba, come l’occhio di una lince a caccia della preda. C’era positività e grande ottimismo,
ma, l’essere ottimisti nella testa dei calciofili che flirtano con i fantasmi e in cui l’ottimismo e la festa sono
solo la facciata di uno strepitoso culto del macabro, non è comunque un buon punto di partenza. Difatti sei
anni dopo tutto è cambiato senza che nulla sia cambiato. Anzi, per certi versi il contesto si è esacerbato
ulteriormente.
Intanto per una questione puramente tecnica: passare dal campo al monitor non è come il principio dei vasi comunicanti – nonostante la comunicazione con il quarto uomo sia costante- per cui chi era scarso col fischietto in bocca continua ad esserlo con l’auricolare all’orecchio. Poi per la solita questione di interpretazione che da secoli tiene banco e su cui sarà impossibile arrivare ad una soluzione oggettiva non potendo essere sottoposta a nessuna regola, se non a quella del buon senso.
Una partita di pallone ha mille sfaccettature e duemila varianti essendo uno sport fondamentalmente di contatto. Per cui va da sé che ogni intervento è giudicato dal punto di vista soggettivo che inevitabilmente porta a scontentare qualcuno, in casi eccezionali entrambe le squadre. A metterci di suo anche il protocollo VAR che non
chiarisce in maniera certa e lineare quando lo stesso può intervenire, se può scavalcare la decisione dell’arbitro soprattutto in presenza di un caso sospetto giudicato regolare nel rettangolo verde. Paradossalmente il ventaglio degli errori si è ampliato andando ad includere delle situazioni altrimenti indiscutibili prima della sua introduzione.
Non solo, si è anche persa l’adrenalina dell’esultanza dopo un gol in quanto, dopo ogni rete, scatta sempre il controllo su tutta l’azione che in alcuni casi dura qualche minuto. Non c’è giornata di campionato, non c’è partita senza polemiche e senza bufera. La lente di ingrandimento, focalizzata su un singolo episodio, mette inevitabilmente in risalto, ingigantendolo, ogni minimo contatto che in un gioco come il calcio rappresenta la normalità. O forse ha rappresentato la normalità.
Detto che nessuna macchina, per quanto tecnologica che sia, può decidere da sola senza l’input umano, c’è da chiedersi se il fallimento della moviola in campo (perché di fallimento si tratta) sia dovuto anche ad un uso eccessivo che probabilmente alimenta le tensioni. Infatti il protocollo iniziale prevedeva l’intervento solo per casi veramente eccezionali, quali gol non gol, fuorigioco, falli evidenti e pericolosi.
Sul fatto che l’occhio umano non è il solo responsabile di questo caos, per nulla calmo, basta vedere cosa succede nelle altre principali Leghe d’Europa. In Bundesliga, partiti anche loro nel settembre del 2017, non è mai piaciuto. In più di un’occasione si è chiesto la ripetizione della gare per grave errore tecnico. Poco amato (il VAR) anche in Liga nonostante l’uso con il contagocce. Addirittura detestato in Premier da quasi tutti i top club ed ex calciatori. City, Arsenal, Liverpool, Chelsea, Tottenham tutte imbestialite contro questo strumento, tant’è che è partito il coro di coloro che vogliono il ritorno all’antica. E sono voci autorevoli e di un certo peso.
La domanda è: tornare indietro si può? Dipende dove, la risposta. Come spesso accade anche nello sport è pure un fatto culturale, oltre che pratico. Nella terra della perfida Albione, dove le partite finiscono un attimo dopo il triplice fischio, probabilmente si può. Più difficile nel paese dei 60 milioni di commissari tecnici, dove ogni gara dura più dei Rotoloni Regina, e dove ogni fischio è accompagnato da un alone di sospetto, complotto e vittimismo. Un approccio esagerato che dura una settimana intera tra giornali, radio locali e TV, fino alla gara successiva. Polemiche spesso e volentieri strumentali, senza logica, pescate a sorte come le palline dell’estrazione del Lotto.
A dar fiato alle trombe del meccanismo perverso hanno contribuito negli anni i vari programmi di calcio i quali, memori delle baruffe di “biscardiana” memoria, hanno tentato di replicare il copione seppur con toni più pacati. Come in una catena di montaggio le polemiche si sono presto spostate dagli studi televisivi agli stadi (ed ora ai social)scatenando spesso reazioni violente contro gli arbitri. Sarebbe stato meglio prendere tutto meno sul serio, dare il giusto peso alle cose (tanto più che un presunto errore non è più rimediabile) e soprattutto fermarsi prima che i buoi scappassero. Si fatica, o addirittura ci si rifiuta, ad accettare gli errori che inevitabilmente anche un
arbitro può commettere. Come un attaccante o un difensore. O un allenatore.