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Il caso di Gina Lollobrigida, diva immortale e senza tempo, appartenente a quel mondo immateriale che circonda ogni personaggio che abbia raccontato la nostra Italia, è mediatico e emblematico. È un caso che se sei diva diventa automaticamente di tutti. Tutti coloro che hanno amato ‘Pane, amore e fantasia’, ‘La romana’, ‘La donna più bella del mondo’ e tante altre storie, sono entrati nella vicenda post mortem dell’attrice di cui hanno amato anche la vita. Vero è che dietro ogni successione ci sono beni materiali e immateriali che devono essere riconosciuti dalla legge, e che nei lasciti ereditari della Lollo è l’ultimo testamento ad avere valore.
Quello della Lollobrigida è un testamento recente, pubblico, e soprattutto è un caso mediatico che improvvisamente – come accade per i volti che il grande pubblico conosce – diventa l’emblema della gente comune, di chi per molti motivi si trova a sbrogliare l’intricatissima matassa delle disposizioni testamentarie. Ogni successione, si sa, ha tempi spesso infiniti che molto spesso superano la vita e la morte dei protagonisti dell’eredità. E nel caso Lollobrigida raccontano molto spesso la vita del suo autore e diventano proiezione dello stesso nel futuro, anche se non sempre le ultime disposizioni contenute nei testamenti vengono esaudite perché, per dirla con le parole di Thomas Mann, “la morte di un uomo è meno affar suo che di chi gli sopravvive”.
È il caso di Charles Dickens che, nonostante abbia scritto espressamente sul testamento che non voleva un funerale pubblico, gli furono comunque organizzate esequie di Stato e per lui si fermò l’intera nazione. Prima di lui è toccato anche a Virgilio: è stato tradito – per fortuna dei posteri – nelle sue ultime volontà dai suoi amici. È grazie a loro se è arrivata fino ai giorni nostri l’Eneide, perché se fosse stato per il poeta romano il destino dell’opera, da lui considerata incompleta, era quello di finire tra le fiamme.
E ancora, alla morte di Franz Kafka, Max Bord, in qualità di esecutore testamentario, avrebbe dovuto distruggere le sue numerose opere incompiute. Ebbene Bord non seguì le ultime volontà dello scrittore praghese di lingua tedesca pubblicando tutti i testi. Risultato? Kafka divenne così uno dei romanzieri più letti e venduti del pianeta. Il tema delle eredità non esaudite ha ispirato anche il mondo del cinema. Ce lo ricorda bene Totò nel film ‘47 morto che parla’, passato alla storia per la famosa frase ‘… e io pago!’. Antonio de Curtis, nei panni dell’avarissimo barone Antonio Peletti non ha alcuna intenzione di disfarsi del tesoro ereditato dal padre destinato a finanziare la costruzione di una scuola pubblica nel suo paese natale, che ne è sprovvisto. Il finale è noto: l’istituto alla fine viene realizzato ma i compaesani del barone Peletti devono escogitare un piano diabolico per far rispettare le ultime volontà (solidali) del defunto.
Suggestivo, per non dire teatrale come nella vita, il ritratto di Luigi Pirandello nel suo testamento: lapidario nella frase ‘Sia lasciata passare in silenzio la mia morte’, e con una raccomandazione: ‘Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni’. E ancora con volontà perentoria ‘Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere, perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra della campagna di Girgenti, dove nacqui’. Questo scrisse su un foglietto che fu trovato spiegazzato dopo la sua morte il 10 dicembre del ‘36.
I testamenti famosi sono stati anche al centro di una recente mostra. “Io qui sottoscritto. Testamenti di grandi italiani” realizzata dal Consiglio Nazionale del Notariato. Una raccolta di documenti che narra l’Italia da un punto di vista inedito, quello dei testamenti di politici, imprenditori, artisti che hanno reso grande il nostro Paese. Un patrimonio culturale conservato negli Archivi e nei Musei d’Italia, che difficilmente è possibile visionare.
Al di là della fama però i notai italiani sono custodi di migliaia di volontà di persone note e non e nell’attività di attestazione della veridicità testamentaria è fondamentale l’apporto del grafologo forense che deve accertare che il documento di interesse, affinché sia ritenuto valido, sia vergato nella sua totalità dal testatore. Per procedere con un’indagine di questo tipo è necessario, in prima battuta, acquisire informazioni sul de cuius, sul suo grado di scolarizzazione, sull’abitudine a scrivere e, non da ultimo, sulle condizioni di salute alla data del reperto.
L’indagine comincia con l’osservazione del documento indagato con UV, IR e con luce radente finalizzati ad escludere la presenza sullo stesso di abrasioni, cancellature, solchi ciechi non visibili ad occhio nudo. Si procede acquisendo scritture comparative di certa autografia quanto più coeve possibile alla data del testamento per poter studiare la grafia del testatore ed evidenziare gli elementi personali e personalizzanti la stessa quelli, cioè, che contraddistinguono in maniera unica ed inequivocabile, inimitabile ed indissimulabile le sue produzioni; segue lo studio approfondito del documento sottoposto a verifica con l’intento, anche in questo caso, di mettere in luce gli elementi di interesse peritale che lo caratterizzano. Dopo aver effettuato i rilievi pocanzi descritti si passa alla comparazione dei dati rilevati che vengono analizzati alla luce delle numerose leggi in materia ed applicando un rigoroso metodo di valutazione al fine di determinare l’autografia o la falsità del documento.
Detta così pare semplice ma, di fatto, il grafologo forense che si cimenta nell’indagine testamentaria si scontra sovente con almeno due grossi problemi: il reperimento di materiale di certa autografia che si rivela frequentemente complicato al punto che sovente ci si trova a dover operare con sole firme non trovando scritti certi del de cuius e la senescenza della grafia di persone molto anziane e/o malate che può subire grossi cambiamenti rendendo difficile l’indagine soprattutto laddove non si riuscisse ad acquisire autografe coeve al testamento.
Capita talvolta che vi siano dubbi non tanto sull’autografia dello scritto nella sua totalità ma su parole o frasi che potrebbero esser state inserite successivamente alla stesura dello stesso da terza mano: in questo caso è utile aiuto la figura del chimico forense che può verificare sia l’identità di strumento scrittorio sia, in alcuni casi, l’età dell’inchiostro.