contenuto a cura di
Francesco Rossi
Nel variegato mondo del gioco delle coppie anche il calcio è riuscito a ritagliarsi uno spazio non indifferente nel corso degli anni, calando sul tavolo verde pariglie di assi di un certo livello. Quante volte abbiamo letto, o sentito, “gemelli del gol” (Pulici e Graziani, per esempio) o “coppia d’oro”? Descrizioni da affiatamento quasi parentale. Perché gemelli e non fratelli? Perché in Italia i fratelli del gol li abbiamo avuti, li abbiamo visti ed ammirati, ma sempre con maglie diverse. Ed è un vero peccato, in quanto non è affatto facile a questi livelli, avere due fratelli nel pallone ed entrambi attaccanti.
Una linea di pensiero unica come quella perimetrale e di demarcazione del terreno di gioco, teatro di sogni e delusioni. Ma le curiosità non sono terminate: infatti finita la professione di bomber entrambi si sono dati alla panchina (non del parco) ed ironia della sorte vuole che in questo momento la classifica del campionato di serie A sia aperta e chiusa proprio da loro: da Simone e Filippo Inzaghi, alla guida di Inter e Salernitana rispettivamente prima e ultima. Si, proprio da loro: dai fratelli del gol. Entrambi rapinatori d’area di rigore ma con caratteristiche tecniche diverse: sgusciante e sempre sul filo del fuorigioco uno, più presente nella manovra e più stabile davanti la porta l’altro.
Filippo, detto Pippo, e Simone ovvero i fratelli Inzaghi. Il primo – anche anagraficamente- ha vinto tutto tra Juventus, Milan e nazionale. Più fidelizzata la carriera del secondo sviluppatasi per oltre 20 anni con la maglia della Lazio ma in generale meno realizzatore del fratello. Una vita calcistica passata quasi interamente all’ombra di Pippo che nel frattempo trionfava a suon di gol. Le soddisfazioni non sono però mancate neanche a Simone avendo fatto parte della Lazio di Cragnotti ed Eriksson, la più vincente in assoluto e tra le più forti della storia italiana. Pippo più fumantino, più tarantolato, caratteristiche che hanno probabilmente contribuito notevolmente alla sua esplosione, non essendo mai stato accompagnato da un fisico notevole. O forse in maniera intelligente Pippo ha capito che era l’unica maniera possibile di giocare, non potendo fare a sportellate in area di rigore con i difensori. Il modo migliore per fare esplodere l’immensa classe. Chiude la carriera da bomber dopo 624 partite e 294 reti dal 1991 al 2012. Uno score assolutamente invidiabile.
Più conservatore e riflessivo Simone, accasatosi comodamente ai Parioli, non ha più tolto le tende per 25 anni tranne per i due brevi prestiti alla Sampdoria e all’Atalanta. Nonostante abbia sempre goduto della stima e della fiducia di tutti ha dovuto fare i conti con grandi attaccanti che alla Lazio non sono mai mancati nei tanti anni della sua permanenza. Salas, Vieri, Crespo, Chiesa, Signori giusto per citarne qualcuno e rendere bene l’idea. Davanti a mostri sacri così non sarebbe stato facile per nessuno sgomitare e farsi trovare sempre pronto. Infatti, appende gli scarpini al chiodo con numeri alquanto modesti: 347 presenze per soli 94 gol dal 1994 al 2010 anno in cui decide di dire basta, due stagioni prima del fratello. Delio Rossi, suo allenatore, lo accusava spesso di superficialità quasi di svogliatezza tant’è che in pochi avrebbero scommesso su una sua carriera da tecnico.
Tutto l’opposto (pure qui del fratello), il quale anche in allenamento sfoggiava una meticolosità fuori dal normale. Sarà altresì dipeso dal fatto di avere avuto in carriera il gotha dei tecnici, una carrellata di “Premi Nobel” della Panchina. È talmente vero che quando decise di passare anche lui dall’altra parte del campo in parecchi gli pronosticarono un radioso futuro anche da trainer. Contrariamente a Simone che già da un paio di anni guidava con successo gli Allievi della Lazio.
Mentre Pippo inizia da un gradino più alto rappresentato dalla Primavera del Milan: dal campo alla panchina, la corsa degli Inzaghi’s continua quasi in fotocopia. Ma è quel “quasi” a fare tutta la differenza del mondo. Perché la beffa del destino è lì dietro l’angolo, pronta a fare il suo ingresso in campo e ribaltare tutto, dalle gerarchie alle previsioni. Infatti, con il cambio di pettorina accade l’imprevedibile e soprattutto l’imprevisto: Simone sorpassa Pippo, addirittura lo surclassa nonostante la nuova carriera di Superpippo era iniziata in maniera super: alla guida del Milan, come prima squadra professionistica. Ma è un Milan debole e in declino che chiuderà la stagione con un deludentissimo decimo posto, risultato che costerà la conferma a fine stagione. Ma Pippo è innanzitutto un professionista esemplare innamorato del pallone, per cui non ci pensa un secondo ad accettare la chiamata di Joe Tacopina in quel di Venezia, all’epoca in serie C. Un doppio salto all’indietro che in pochi della sua statura avrebbero fatto.
Nel frattempo, a Roma, sponda laziale succede qualcosa che cambierà per sempre il destino di Simone. Lotito esonera Pioli a sette giornate dalla fine ed affida gli ultimi due mesi di campionato proprio all’ex attaccante, ma il quadro è già disegnato: a giugno Marcelo Bielsa a Formello, Inzaghi jr alla Salernitana…di proprietà dello stesso patron bianco-celeste. Ma quando si ha a che fare con El Loco tutto può accadere. Infatti. A poche ore dalla partenza del ritiro per Auronzo di Cadore il tecnico argentino ci ripensa lasciando Lotito con un pugno di mosche in mano. E qui inizia il Ballo di Simone. Lotito lo richiama prontamente alla base, e quello avrebbe dovuto essere un semplice giro di valzer, si trasforma presto in una scuola di ballo che dura ben sette anni durante i quali vince Coppe Italia e Supercoppe.
Successi che non passano inosservati tanto da meritarsi la chiamata di Marotta per dirigere l’orchestra Inter nella Scala del calcio. Un’orchestra da poco laureatasi campione d’Italia e orfana di Antonio Conte con gran parte del tifo ancora sotto shock per l’addio del tecnico pugliese. Non proprio una situazione semplice da gestire. Ma Inzaghino ci mette poco a adattarsi e farsi accettare, ed anche qui prosegue sulla scia di successi locali (intesi come le Coppe nazionali) accompagnati da una storica finale di Champions. Quest’anno lo attende, però, il definitivo salto di qualità: ovvero lo scudetto. La seconda stella è l’obiettivo primario per questa stagione. Il tratto distintivo della carriera di Simone è stato fino ad ora le competizioni brevi e le gare secche, senza ritorno. Dire che la stagione in corso rappresenti un bivio forse è esagerato, ma sicuramente un piazzamento che vada dal secondo posto a scendere sarebbe poco gradito in viale della Liberazione.
Parallelamente, come in una sorta di cambio della guardia, il percorso di Pippo stenta a decollare, per lo meno per ciò che riguarda i grandi palcoscenici cui è sempre stato abituato a calcare da giocatore. Un paio di situazioni societarie sfortunate (Brescia e Reggina), trionfi a suon di record con Venezia in C e soprattutto Benevento in B. Ma anche un rapporto tutto da costruire con la serie A: decimo col Milan, esonerato a Bologna, retrocesso col Benevento. Ma Super Pippo, che vive di calcio 24 ore al giorno, fatica a stare fermo. Fatica a guardare le partite in TV, al divano di casa preferisce la panchina. Anche se scomoda, anche se il percorso è parzialmente compromesso. Così, terminata l’avventura amaranto dello Stretto, arriva la chiamata da Salerno dove c’è da risollevare le sorti di una stagione che pare segnata oltre che stregata. E fino ad ora le cose non sono andate granché bene (nonostante la vittoria di sabato contro la Lazio), con il rischio concreto che l’avventura possa terminare in anticipo compromettendo ulteriormente il legame con la massima serie. In caso di fallimento il rischio che Pippo possa essere etichettato come “allenatore di B” è molto alto e questo immaginiamo lo sappia e lo abbia messo in conto nel momento di accettare la corte di Iervolino. Ma Pippo è un uomo di campo che ama le sfide difficili, che le vive come una missione. A, B o C, prima o ultima, non fa differenza. Pippo vuole solo allenare. Auguri.