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Cristina Sartori
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“Era un bravo ragazzo”, “deve aver perso la testa”, “niente faceva presagire che potesse succedere questa cosa…” sono le parole con cui spesso, famigliari e conoscenti definiscono l’assassino (o presunto tale) della compagna o ex compagna, l’autore, o presunto tale, dell’ennesimo femminicidio ed anche in queste frasi a ben vedere c’è una sottesa accusa nei confronti della donna: chissà cosa avrà fatto per portare quel “bravo ragazzo” ad essere un assassino del resto, se fosse stato un cattivo ragazzo e avesse manifestato una qualche forma di disagio, la donna in questione non gli si sarebbe avvicinata o, quantomeno, sarebbe scappata alla prima avvisaglia, ma se è rimasta, se non se n’è andata, evidentemente tanto male questo uomo non era.

Sappiamo bene che non è così, che l’evoluzione della violenza è una spirale che ti arrotola su te stessa e ti trascina verso il basso togliendoti lucidità e forza per reagire. Sappiamo anche che non sempre si riescono ad intercettare le manifestazioni disfunzionali di un soggetto all’interno di una relazione (e per questa incapacità non si può certo colpevolizzare la vittima) e spesso quando riusciamo a farlo siamo già imbrigliate nel senso di colpa e nella paura al punto da non riuscire ad intervenire con efficacia.

Sì, perché questa categoria di uomini è capace di distruggerti la vita con comportamenti subdoli quasi impercettibili e non tanto e non solo con le botte ma soprattutto con la manipolazione, la svalutazione, l’offesa, la mortificazione, l’intimidazione e la minaccia, tutta una serie di atteggiamenti che poco hanno a vedere con calci e pugni ma che riescono a destrutturare forse ancor più di questi la personalità della malcapitata. Abusi ordinariamente sopportati nella famosa “società patriarcale”, precipitato culturale che per qualcuno fornisce la spiegazione anche dell’odierna mattanza; io, dal canto mio, ipotizzo che vi siano altre e ben più attuali cause scatenanti la rabbia distruttiva del “bravo ragazzo” come, ad esempio, l’implosione del maschio, schiacciato della sua incapacità di accettare il nuovo passo della donna.

Di questo e non solo ho parlato con Silvia Bassi psicologa, esperta in criminologia e psicodiagnostica clinica e forense, collaboratrice attiva di associazioni nazionali che si occupano di violenza di genere quali “Gens Nova” e “Senza Veli sulla Lingua”.

Si sente spesso dire “era un bravo ragazzo”, “era un figlio modello”, “non ha mai dato problemi di alcun tipo”. Quali sono i segnali che possono farci quantomeno intuire che quel “bravo ragazzo” forse non lo è poi così tanto e che basta poco, un poco che probabilmente per lui è molto, per slatentizzare qualcosa di decisamente mostruoso? Quali sono i segnali che dobbiamo cogliere non solo noi compagna ma noi società tutta?

I bravi ragazzi non destano sospetti; spesso provengono da una buona famiglia e sono considerati “bravi ragazzi” perché, almeno apparentemente, non hanno mostrato fino al momento dell’omicidio agiti violenti. Poiché non esiste il raptus di follia, è necessario attenzionare alcuni comportamenti, segnali atipici, coglierli e approfondirli: mi riferisco soprattutto al controllo sulla vittima, manifestato nella relazione in vari modi come il voler  sempre sapere dove si trova la partner, l’invio costante di messaggi sul cellulare per verificare i suoi accessi in termini di orario, la sparizione per ore e giorni senza rispondere (ghosting), il controllo dei social con profili fake, i pedinamenti, le infinite domande per conoscere ciò la partner ha fatto durante la giornata, la manipolazione consapevole di ricordi, memoria e percezioni (gaslighting) altrui, la gelosia ossessiva e infondata, il voler esserci sempre, il limitare (con atteggiamenti e richieste più o meno palesi) le visite a familiari e amici. Vi sono poi ulteriori e più subdoli atteggiamenti volti a minimizzare i successi della donna, criticarla, svalutarla, e obbligarla, attraverso ricatti morali che fanno leva sul senso di colpa, a rimanere con lui in quella relazione disfunzionale anche quando la donna avesse deciso di lasciarlo, ricatti morali palesati con frasi tipiche quali “se mi lasci mi ammazzo”, “non posso vivere senza di te” “mi sento morire al solo pensiero che tu mi possa lasciare”, “mi sento depresso e vorrei solo farla finita“.

Quelli sopra elencati sono campanelli d’allarme, comportamenti di controllo e manipolazione psicologica da non sottovalutare, alla cui base vi è l’idea del possesso dell’Altro, della donna vista come oggetto da controllare, possedere e sottomettere, che non può essere autonoma e indipendente Comprendo che vi possano essere dubbi in merito ad una possibile e reale evoluzione negativa di questi segnali e capisco quanto sia difficile intuire quando preoccuparsi, ma ritengo sia meglio parlarne che non parlarne, informare che non informare, ed il mio consiglio è quello, laddove nella propria relazione si ravvisassero comportamenti e atteggiamenti disfunzionali, di confidarsi sia con qualcuno di fiducia capace, essendo una persona esterna alla relazione, di maggior obiettività sia con professionisti che si occupano di violenza di genere per capire come muoversi.

Credi si possa ancora parlare quasi esclusivamente di precipitato culturale, di società patriarcale, di retaggio giuridico o ritieni che i giovani di oggi, lontani dalle norme e dalle famiglie di 30 – 40 anni fa, mostrino nella relazione una componente di maggior sgretolamento di personalità dovuta alla nuova percezione di sé ed al nuovo ruolo della donna oggi?

Chi commette un omicidio di genere non è in grado di tollerare che la donna voglia essere autonoma, indipendente, che possa raggiungere traguardi superiori ai propri; questo nuovo passo, chiaramente osservabile nella società attuale, comporta nel carnefice un’incettabile perdita del senso di superiorità e per poterlo ritrovare, prima controlla e poi toglie la vita.

I giovani adulti della società attuale mostrano significative difficoltà ad accettare la frustrazione, il rifiuto, la sconfitta, la perdita e non riescono a sopportare che una relazione possa finire. Possono cresce in famiglie disfunzionali, affettivamente poco presenti, svalutanti nei confronti dei figli, oppure ipercontrollanti e morbose, genitori che corrono in aiuto ogni qual volta i figli ne hanno bisogno, pronti a giustificarli con insegnanti o altre figure di riferimento esterne la famiglia, famiglie che creano dipendenza e insicurezza nei figli, una fragilità narcisistica che non porta a relazioni sane, ma a relazioni in cui lui non riesce a sopportare che la donna sia al suo pari o addirittura possa raggiungere obiettivi, superiori ai suoi, arrivando a costringerla ad assumere una posizione passiva e di sottomissione.

Negli anni abbiamo fatto convegni informativi, distribuito in ogni dove opuscoli e vademecum orientativi, attivato numeri utili cui ci si può rivolgere, efficientato gli sportelli antiviolenza, migliorato la normativa di riferimento e non da ultimo attivato continui incontri su tutto il territorio per sensibilizzare e responsabilizzare maschi e femmine. Su cosa dobbiamo concentrare il nostro lavoro oggi?

Penso che sia fondamentale proseguire nel processo di sensibilizzazione e prevenzione primaria attraverso corsi di formazione e convegni, informare sui numeri e app utili a cui fare riferimento e sull’importanza di rivolgersi ai centri antiviolenza, creare una rete di supporto che non porti ad una vittimizzazione secondaria; è doveroso inoltre comprendere le dinamiche che sottendono entrambe le persone nel rapporto, sia quelle dell’aggressore sia quelle della vittima e come si intersecano.

Ritengo sia necessario, in parallelo, istituire dei programmi ministeriali nelle scuole di educazione affettiva e sessuale che pongano le basi per una conoscenza approfondita di sé e della propria unicità e dell’Altro come soggetto altrettanto unico con propri pensieri, emozioni, idee che possono essere anche diversi che è necessario accogliere ed accettare senza volerle cambiare.

L’educazione all’affettività ha come obiettivo la consapevolezza e il riconoscimento delle proprie emozioni, l’acquisizione della capacità di gestirle e veicolarle senza cadere in agiti pericolosi e violenti, l’insegnamento di quelli che sono i confini da rispettare tra Sé e l’Altro e valorizzando le differenze tra gli individui quali risorse e non limiti.

Ritieni funzionale la comunicazione anche mass mediatica del fenomeno e dei diversi accadimenti che quasi quotidianamente sentiamo raccontare?

Credo che il problema non sia tanto quello di parlare degli omicidi di genere attraverso i media, perché questo può aiutare molte donne a denunciare e sviluppa maggiore consapevolezza dei segnali atipici che possono condurre da comportamenti violenti fino all’omicidio di genere; il limite dell’informazione attuale ritengo sia la moltitudine di informazioni e dettagli precisi in merito a questi terribili fatti di cronaca, ad es. in termini di modalità di coercizione, di manipolazione, la narrazione dettagliata di particolari scabrosi rispetto ai comportamenti del carnefice e morbosi rispetto alle modalità dell’omicidio, sul ritrovamento del corpo e altre narrazioni drammatiche spettacolarizzazione, questa, che potrebbe esser, per soggetti chiaramente disfunzionali, pericolosa font di emulazione.