contenuto a cura di
Valentina Marsella
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Cristina Sartori
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Il cambio culturale avviene solo attraverso una visione sistemica, dove tutti ‘gli attori’ del sistema socio-culturale in cui viviamo si mettono in dialogo e in ascolto l’uno con l’altro. Due esperte raccontano il lungo cammino per l’emersione del diritto delle donne a non subire violenza. Un percorso lungo e difficile, spesso osteggiato e ridicolizzato. Urge  un intervento da parte dello Stato perché il divario di genere (e tutto ciò che ne consegue, quindi la violenza maschile sulle donne) è un problema collettivo, politico, che coinvolge tutti e tutte e che non può essere demandato solo alle famiglie o, peggio, in uno spontaneo “cambiamento generazionale”.

Intervista a Stefania Santoni consulente culturale esperta in gender studies e a Emanuela Skulina sociologa, vicepresidente Alba Chiara APS.

Il cambio culturale avviene solo attraverso una visione sistemica, dove tutti ‘gli attori’ del sistema socio-culturale in cui viviamo si mettono in dialogo e in ascolto l’uno con l’altro. Due esperte raccontano il lungo cammino per l’emersione del diritto delle donne a non subire violenza. Un percorso lungo e difficile, spesso osteggiato e ridicolizzato. Urge un intervento da parte dello Stato perché il divario di genere (e tutto ciò che ne consegue, quindi la violenza maschile sulle donne) è un problema collettivo, politico, che coinvolge tutti e tutte e che non può essere demandato solo alle famiglie o, peggio, in uno spontaneo “cambiamento generazionale”.

Sociologia del femminicidio. Qual è la storia e l’evoluzione del fenomeno dalle conquiste femministe dal dopoguerra ad oggi?

Il cammino per l’emersione del diritto delle donne a non subire violenza è stato lungo e difficile, spesso osteggiato e ridicolizzato. Per secoli, sulla base delle differenze sessuali tra uomini e donne, si è considerata l’inferiorità femminile come un fatto biologicamente fondato: le differenze naturali tra i sessi hanno costituito la base della discriminazione delle donne nella società, attraverso una divisione del lavoro, dei compiti quotidiani, dell’accesso alla vita pubblica, culturale e simbolica diseguali.

È da questa percezione sociale di sostanziale diseguaglianza tra i sessi, profondamente radicata nelle convinzioni e nelle pratiche sociali, che nasce la violenza di genere intesa come la violenza che si rivolge contro l’essere donna, contro il femminile e causata del disprezzo sociale e della brama di controllo sui corpi femminili da parte del sistema di potere maschile, il patriarcato. Porre l’accento sulle radici culturali e sociali del fenomeno, definendolo come “violenza di genere contro le donne” anziché come “violenza contro le donne”, permette di evidenziare come tale violenza affondi le sue radici in un’idea ancestrale ben precisa dei rapporti gerarchici tra i sessi, idea che definisce ciò che una donna “dovrebbe essere” e “dovrebbe fare”, consentendo di individuare casi effettivi di violenza in modo trasversale, a prescindere dai luoghi, dalle epoche e dalle culture specifiche che si considerano e mettendone in luce i riflessi a livello istituzionale. E’ stato questo il lavoro portato avanti dai movimenti femminili e femministi, iniziato ben prima del dopoguerra: un lunghissimo cammino che ha portato a mettere in luce come queste disuguaglianze fossero tutt’altro che naturalmente determinate e che la violenza fosse uno strumento di potere. Punto di svolta è stato il decennio degli anni 70, che ha visto numerose picconate allo status quo con l’approvazione della legge sul divorzio, della legge sulla tutela delle lavoratrici madri e quella sull’aborto, culminando con la riforma del diritto di famiglia del 1975. Non c’è il tempo di ripercorrere tutte le tappe nel dettaglio, ma basti pensare che è del 1996 la legge che finalmente considera la violenza sessuale come un reato contro la persona (ed è della metà degli anni 90 il primo documento internazionale che sancisce, una volta per tutte, che anche la violenza sulle donne rappresenta una violazione dei diritti umani).

Per questo, non stupirà sapere che il termine “femminicidio”, tuttora spesso osteggiato quando non denigrato, viene introdotto in Europa per la prima volta nei primi anni 2000, per riferirsi a quegli omicidi in cui una donna è uccisa da parte di un uomo per motivi di odio, di disprezzo, passionali o per un senso di possesso. Il femmicidio non è un semplice omicidio ma l’omicidio di una donna in quanto donna. L’obiettivo principale dell’introduzione del termine era infatti quello di dare un nome ad un problema che rischiava di venire occultato da termini neutri come “omicidio” o “strage”, che non permettono di porre in evidenza il

fondamento misogino dell’atto violento.

A colpo d’occhio parrebbe che la nostra società abbia fatto grossi passi avanti in termini di parità di genere ma io ho il ragionevole sospetto che buona parte di tutto ciò che osserviamo altro non sia che fumo negli occhi. Di fatto la donna è ancora fortemente penalizzata in tutti gli ambiti nonostante le battaglie linguistiche, le quote Rosa e le panchine rosse. Quale retaggio culturale persiste nel tessuto sociale al punto da non permetterci quel nuovo passo che sarebbe indispensabile fare per essere realmente libere? Cos’è possibile o auspicabile fare in questo senso? Come?

Il divario esistente tra uomini e donne affonda le sue radici millenni fa: penso all’antica Grecia, al mito di Pandora (la prima donna plasmata dagli Dei e mandata ad abitare il mondo per punire gli esseri umani e causare sventure) o ad Aristotele che definisce la donna una cosa, un corpo, una madre materia utile solo a garantire il divenire della specie. È qui che ha inizio il processo di reificazione del genere femminile e quindi alla sua svalutazione. E proprio da questo immaginario, frutto di una società patriarcale, nascono quelli che chiamiamo “stereotipi di genere”. Ma prima di approfondire questo punto, desideriamo far luce sul patriarcato. Di che si tratta? Quella patriarcale è una società gerarchica fondata su un principio che privilegia il maschile rispetto al femminile. Lo riconosciamo attraverso dei comportamenti. Nella società patriarcale gli uomini decidono cosa è consentito o meno fare tanto alle donne quanto ai maschi, quali ruoli possono assumere e quali invece devono evitare. È così che si modulano e generano gli stereotipi, vale a dire schemi, gabbie che semplificano la realtà (e che impediscono alle persone di diventare ciò che sono, di assecondare e realizzare i propri desideri). Gli stereotipi di genere sono costituiti da categorie fisse attraverso le quali cataloghiamo le persone supponendo debbano avere caratteristiche, interessi e tratti nettamente distintivi per potersi conformare al ruolo “di uomo” o “di donna” a seconda del sesso assegnato alla nascita. Alcuni esempi concreti? È uno stereotipo associare il blu ai maschi e il rosa alle femmine. È uno stereotipo pensare che le femmine siano più portate per la cura e i maschi per la scienza. È uno stereotipo pensare che una femmina che prova rabbia sia un maschiaccio e un maschio che piange sia una femminuccia. Tutto questo impedisce alle donne di essere come desiderano essere, al di là di tutti i condizionamenti sociali in cui vivono e delle aspettative (o meglio, gabbie) in cui la società cerca di incasellarle e intrappolarle. Imparare ad allenare il nostro sguardo a riconoscere che siamo condizionate dal contesto socio culturale in cui cresciamo è il primo passo per uscire da questa dinamica fondata su una dicotomia che considera il maschile la norma, il “canone”, mentre il femminile qualcosa di inferiore, che non ha ugual valore. Tra le varie azioni che possiamo mettere in pratica per sovvertire questa dinamica c’è ad esempio il riportare alla luce tutta quella cultura non egemone, vale a dire tutte quelle storie di donne lasciate ai margini della storia ufficiale e che non troviamo mai nei libri di scuola. Raccontare la storia delle donne che hanno fatto (anche) la nostra storia ci permette di “pensarci” come solitamente non ci permettono di pensarci: anche noi possiamo occuparci di scienza, prendere decisioni politiche ed economiche, fare tutte quelle cose che la nostra tradizione etichetta solitamente come “da maschi”. Al tempo stesso: parlare di paternità, di padri (non di “mammi”) consente di mettere in luce il ruolo fondamentale di care giver che gli uomini devono poter rivestire. Perché non ci sono pari opportunità reali fuori casa, se non ci sono pari opportunità reali dentro casa. Abbiamo bisogno di immaginari nuovi, in cui poterci riconoscere e identificare.

Proprio oggi sono usciti i dati di una ricerca che collocano l’Italia tra i primi paesi in termini di sensibilità e rispetto di genere tra i ragazzi di 13 e 14. Come dovrebbero muoversi famiglie istituzioni e società tutta per favorire e velocizzare il tanto invocato cambio culturale?

Il cambio culturale avviene solo attraverso una visione sistemica, dove tutti ‘gli attori’ del sistema socio-culturale in cui viviamo si mettono in dialogo e in ascolto l’uno con l’altro, in sinergia, coinvolgendo tutta la cittadinanza. Ruolo fondamentale lo hanno le scuole (di tutte le tipologie, dall’infanzia all’istruzione secondaria): si dovrebbe intervenire affinché in questo spazio dove bambini e bambine, ragazzi e ragazze trascorrono la maggior parte delle loro giornate e imparano a sviluppare le loro abilità sociali, avvengano dei corsi dedicati all’affettività e all’educazione sentimentale. Che cosa significa? Abbiamo bisogno di essere consapevoli delle nostre emozioni, saperle nominare, comprendere che sono universali (e che non esistono emozioni non legittime per maschi o femmine!) per costruire relazioni sane. Abbiamo bisogno che esperti ed esperte ci insegnino la differenza tra conflitto e violenza, che ci spieghino come negoziare, ad accettare i no, a costruire relazioni fondate sul rispetto reciproco e il principio di equivalenza. Ma per fare questo, urge un intervento da parte dello Stato perché il divario di genere (e tutto ciò che ne consegue, quindi la violenza maschile sulle donne) è un problema collettivo, politico, che coinvolge tutti e tutte e che non può essere demandato solo alle famiglie o, peggio, in uno spontaneo “cambiamento generazionale”. Certamente, questi dati ci rincuorano e ci fanno capire che il lavoro fatto negli ultimi decenni sta andando nella direzione giusta, ma c’è ancora tanto lavoro da fare!