contenuto a cura di
Francesco Rossi
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In Italia ci sono eventi duri a morire, impressi sulla roccia come la spada del romanzo di T. H. White. Uno di questi è il discorso di fine anno del Presidente della Repubblica. Da settantaquattro vigilie di San Silvestro, ogni 31 dicembre sera irrompe, imperterrito, nelle case degli italiani a reti unificate. Cosi è se vi pare.

Come l’infanzia di Re Artù, anche la melensa litanica quirinalizia è un combinato di leggenda, fantasia,
commedia. Soprattutto da un decennio a questa parte, lo scopo è sempre lo stesso: riscaldare i cuori e
creare un esercito di benpensanti con scatto alla risposta a impatto zero. “Se lo dice il Presidente della Repubblica non può che essere vero”. Perché nell’immaginario collettivo l’inquilino del Colle è visto e percepito come il dio Apollo, nulla di ciò che dice può essere contestato o messo in discussione. Nonostante (spesso) la metà di ciò che dice è dannosa e l’altra metà inutile.

Come per esempio quando si nomina a sproposito più volte la parola “Patria”, come Ciampi nel 2005, cioè colui che assieme a Prodi, ha traghettato l’Italia nel porto sciagurato dell’Ue, arrivando a taroccare i conti ed accettando un cambio lira/euro a dir poco folle. Lo ha fatto senza chiedere. Senza sapere se la Patria fosse d’accordo. Ha deciso per tutti. Infatti l’altra parola che più in assoluto l’ex governatore della Banca d’Italia ha usato nei suoi discorsi di fine anno è: Europa. Probabilmente la sua Patria, certamente non quella degli italiani.

Il popolo è, invece, sempre stato nella mente di Pertini; costantemente presente nei suoi sette discorsi, menzionato decine e decine di volte. A seguire guerra e pace. Perché il Presidente partigiano, sin dal 1949, era
assolutamente contrario alla NATO. Ieri un eroe, oggi sarebbe emarginato, accantonato come il peggiore
dei populisti. Perché non si può mettere a rischio l’alleanza con l’amico americano.

Più tecnici i riferimenti di Oscar Luigi Scalfaro che ha sempre puntato su politica, presidente e Parlamento.
Era la stagione delle stragi per cui i cenni allo Stato diventavano quasi obbligatori.

Nei monologhi del primo comunista al Quirinale, ovvero Giorgio Napolitano, non sono mai mancati “paese” e “giovani”. Discorsi da statista, pronunciati mentre alle spalle del paese che citava e che rappresentava, tramava e ordiva, con Parigi e Berlino, disegni criminali atti a ribaltare la volontà popolare e piazzare i governi che piacevano all’Europa. Per fare ciò ha prima sedotto, e poi abbandonato, l’allora Presidente della Camera, Gianfranco Fini, in rottura da tempo con Silvio Berlusconi. L’ex missino ha ostacolato in tutte le maniere il lavoro del Parlamento aprendo la strada all’arrivo del becchino Mario Monti.

Paese è stato anche il tratto distintivo degli interventi di Giovanni Leone su cui ha costruito buona parte dei discorsi di San Silvestro. L’Italia arrivava dal boom economico ma all’orizzonte si faceva largo il terrorismo.

Erano altri tempi, soprattutto erano diverse anche le figure che varcavano il cortile del Quirinale. Uomini delle istituzioni rispettosi del ruolo che assegnava loro la Costituzione. Senza manie di protagonismo, senza mai travalicare il recinto di loro competenza.

L’esatto contrario dell’attuale inquilino, Sergio Mattarella. Il due volte presidente spesso e volentieri è entrato a gamba tesa su questioni che solo marginalmente lo interessavano, come quella di bocciare senza mezzi termini la nomina a ministro del Tesoro del prof. Paolo Savona. E’ vero che la designazione spetta a loro su segnalazione del premier incaricato, ma nella sostanza è solo una formalità, un cavillo burocratico. La colpa di Savona? Aver espresso in passato scetticismo e preoccupazione nei confronti dell’euro. Una macchia indelebile agli occhi di chi, qualche giorno fa, ha dichiarato che la sovranità nazionale è una bandiera inutile. Come se un pilota di aereo dicesse ai passeggeri che il motore non serve a nulla.

I colpi di mano e le forzature che Mattarella ha regalato alla nazione in questi nove anni sono parecchi, e tutti indirizzati sulla retta via che porta a Bruxelles. Tutti di vocazione europeista. Cosa avrà avuto da dire nei discorsi di fine anno? Quali perle di saggezza ha regalato agli italiani? Anche lui, come Pertini, ha incentrato i suoi sforzi oratori sul paese, sul Bel Paese, perno centrale dei suoi pensieri. Ha sempre fatto capolino in maniera irruenta.

Relativamente all’arringa di un anno fa, si noti come su 1.838 battute (in linea con le 1.916 di media), abbia usato per ben 9 volte “repubblica” a seguire “futuro” con 8. Poi “giovani”, “domani” e “libertà”6 volte. Nonostante ciò gli eloqui di Mattarella, con 16,2 parole a frase, rappresentano il valore più basso tra i vari presidenti della repubblica. Ad accezione del discorso inaugurale di Einaudi del 1950: 148 termini in totale. Il record di prolissità spetta a Scalfaro: 4.912 detti il 31 dicembre del 1997. Tuttavia fu un caso eccezionale, in quanto l’anno precedente il presidente del “io non ci sto!”, si era fermato a 2.041 parole.

Vere e proprie “cossigate” quelle regalateci da Cossiga nel 1990 e nel 1991. 3.542 parole contro le sole 418 dell’anno successivo. Dalle picconate, al nulla da dichiarare.

Così a pochi giorni dalla nona solfa del presidente siciliano, ci si interroga su cosa potrebbe vertere il filo del
sermone. Volendo abbozzare qualche pronostico, sicuramente non mancherà la solita spruzzata in salsa europeista ed il richiamo ai valori dell’unione quale casa naturale. Non mancherà anche una frecciatina a
parlamento e governo (pur senza nominarli) sulla questione Mes, con l’auspicio che la contesa si risolva
secondo la volontà degli strozzini e dei falchi dell’Ue. Immancabile l’esortazione alla pace in Ucraina e
medioriente, salvo essere in prima fila, e tra i più convinti dell’invio di armi. Insomma, ciò che attende i
volenterosi italiani che terranno la TV accesa, è la solita tediosa e ridondante vacua allocuzione. Niente di
nuovo sotto l’albero.

Ma come sosteneva Murphy se qualcosa può andare storto, lo farà. Così come se non bastasse la litania di
fine anno ecco partire, un minuto dopo la conclusione, i commenti di politici, opinionisti e giornaloni. Il
coro, neanche a dirlo, è unanime. Elogi, esaltazioni e incensamenti con brandelli di banalità. Sciocchezze a
random, conseguenza naturale di una pochezza culturale disarmante. Può mai essere che il presidente della
repubblica abbia sempre ragione? Eppure la Corea è distante 8.767 chilometri.