contenuto a cura di
Siamo poco più che bambine quando ci propinano la storia di Ulisse, del suo peregrinare tra Troia ed Itaca con il solo scopo di tornare sano e salvo al suo Regno ed a sua moglie, Penelope, esempio di fedeltà, dedizione e profondità di sentimenti.
Siamo poco più che bambine quando ci raccontano di un destino beffardo che, nonostante la nostalgia per la sposa, conduce il povero Ulisse tra le braccia di Circe e Calipso; provano a farlo capitolare anche con Nausica, gli Dei, ma lui, Ulisse, il valoroso Ulisse, riesce a trattenersi, la rifiuta, troppo giovane o forse solo troppo figlia Alcinoo, Re dei Feaci, di colui che avrebbe dovuto garantirgli il ritorno ad Itaca.
Siamo poco più che bambine, troppo romantiche e forse troppo poco disilluse, per non farci convincere, travolte dal phatos della narrazione Omerica, che quella di Ulisse è una sorte cui lo stesso non può ribellarsi, che la sua strada e le sue vicissitudini sono scritte da un destino che, di fatto, si sostituisce alla sua volontà facendo di Ulisse un eroe romantico, nostalgico della moglie e di casa, vittima di eventi ed infedeltà non voluti, accaduti per soddisfare una sorte già scritta.
Infine, siamo poco più che bambine quando ci narrano di Penelope, fedele eroina del focolare che per 20 anni aspetta il ritorno dell’amato (che nel frattempo avrebbe peraltro potuto esser morto) dribblando le avances dei Proci, corteggiatori sovente maleducati forse più interessati ad Itaca che non alla stessa Penelope, grazie allo stratagemma della tela tessuta di giorno e disfatta di notte. Una donna integerrima, che copre il viso ogni qual volta incontra uno straniero e si muove solo accompagnata dalle sue ancelle, astuta, capace di tenere in stand by sulla graticola per 20 anni i suoi spasimanti, capace di perdonare il suo sposo quando finalmente, dopo tanto peregrinare e tanti accadimenti, farà ritorno ad Itaca.
Forse è proprio in questo momento, ascoltando le gesta del coraggioso e valoroso Ulisse e della sua fedele ed innamorata Penelope, che noi tutte, poco più che bambine e più o meno consapevolmente, introiettiamo il valore, dell’attesa, dell’accoglimento, del perdono e dell’accettazione passiva, senza conseguenze, di alcuni comportamenti messi in atto quasi senza averne colpa ne responsabilità, da colui che dovrebbe amarci e rispettarci.
Quello sopra riportato è, in estrema sintesi, il Mito Omerico di Ulisse e Penelope così come oggi viene raccontato a scuola; ma esattamente, vi chiedo, cos’è il Mito?
Furio Jesi, storico, saggista, critico letterario, genio precocissimo e spirito inafferrabile sostiene che il Mito, prima che esistesse la storia come pratica storiografica, rivestiva il “compito” di “struttura portatrice di memoria” capace di condurre le storie, quantomeno parte delle storie, fino a noi; di fatto però questa memoria è “l’inconoscibile prodotto di una macchina mitologica” capace di veicolare elementi simbolici culturali caratterizzata dal non esser mai uguale a se stessa, manipolata e strumentalizzata ciclicamente nei secoli, al fine di rispondere al potere del momento e alle esigenze socio culturali del periodo in cui essa viene a raccontarsi. Obiettivo ultimo quello di “consacrare le forme di un presente che vuol esser coincidente con un eterno presente” perché l’uomo ha bisogno dell’archetipo e nel mito, più che in ogni altro dove, trova un modello originale simbolico naturale capace di affondarsi nelle nostre anime così come il mito affonda se stesso nei millenni.
Stando al pensiero di Jesi si potrebbe ipotizzare quindi che non è un caso se il Mito di Ulisse e Penelope, potenzialmente “aggiustato” nei contenuti e nel messaggio più e più volte in questi duemila anni, ci sia oggi raccontato esattamente nei termini sopra illustrati. Forse quando nel ‘900 vi è stata l’assunzione a ruolo metafisico del mito si è deciso, più o meno consapevolmente, di trasmettere questa narrazione con i termini ed i significati sintetizzati nelle righe precedenti perché era funzionale al potere e alla società del momento parlare di uomo, donna e relazione nel modo in cui tutt’oggi se ne parla: la donna che accudisce casa, si occupa della famiglia, attende amorevolmente il marito reprimendo la propria sessualità e lo perdona di fronte ai suoi ripetuti tradimenti e l’uomo che quasi per naturale predisposizione può decidere di farsi per 20 anni i fatti suoi con l’assoluta consapevolezza che la sua sposa sarà pronta a riaccoglierlo.
Il Mito di Ulisse e Penelope pone le basi, profonde basi, per un modello di società patriarcale, modello che per molti, troppi anni ha trovato, anche sotto un profilo strettamente giuridico, terreno fertile nella nostra bella Italia e che oggi, anche alla luce dell’emancipazione delle donne, non solo non ha più senso di esistere ma, se non smantellato, continuerà ad alimentare, fertilizzandolo, il terreno dell’incomprensione, della non accettazione, del desiderio di possesso alla base degli episodi di violenza di genere.
Ogni volta che la cronaca ci racconta di una donna vittima della furia del suo compagno, ex compagno e/o simili, si sente urlare a gran voce circa la necessita di un cambio culturale radicale ed allora perché, visto che la scuola è il luogo primo della cultura e dato che il Mito, come ci dice Jesi, è strumentalizzabile in modo funzionale al potere, non iniziamo a raccontare una nuova versione della storia di Ulisse e Penelope? Una versione fatta di parità, di rispetto, di volontà cosciente e assunzione di responsabilità esattamente rispondente al “profondo cambio culturale” cui tutti aneliamo quando ci soffermiamo a riflettere sulle dinamiche alla base di fenomeni di violenza di genere. Chissà, potremmo accorgerci, tra qualche tempo, di aver mosso un primo piccolo concreto mitico passo di emancipazione sociale.