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In questo pazzo mondo dove la comunicazione si fonde con la politica, o meglio dove la politica si scioglie nella comunicazione, oppure non ci sono più le mezze stagioni e quindi comunicazione e politica sono diventati sinonimi “four season” e tutto ormai è mero personal branding, ritornare a Itaca è un modo per tornare a respirare, per guardare oltre le sirene della mondanità, tappandosi le orecchie dinanzi alle tentazioni oscene che ogni giorno ci tocca vedere, in questa società dove il visual ha soppiantato la lettura, ossia dove la suggestione ha sconfitto la riflessione, il dialogo, il pensiero. È tutto un feeling. Da consumarsi preferibilmente entro il…

Ulisse invece ci mette dinanzi al vero senso di ogni tattica e di ogni strategia, che hanno un senso solo se vi è un fine alto, pubblico, ideale. Ma alla fine – si vinca o si perda – si torna sempre a Itaca. Una casa a volte abbandonata per un’altra ma sempre si ritorna a una casa, fondamento di ogni attività umana, di ogni economia – la radice greca è la medesima di casa – di ogni radicamento.

È il contrario di ogni sharing, di ogni ideologia travestita da moda, con il relativo termine inglese utilizzato per meglio nascondere la fregatura, anche se ormai l’inglese lo conosciamo tutti. È forse questo l’unico motivo per la battaglia in difesa della lingua italiana: contro ogni orribile italiese e contro ogni fregatura, per tornare a chiamare le cose per quello che sono. Chi è cresciuto con il mito di Ulisse è un apota, ossia il termine coniato nel 1922 (non so se qui scatta la censura…) dal genio di Giuseppe Prezzolini e che significa “colui che non se la beve”. Non è mero scetticismo, ma consapevolezza. È voler capire. È voler andare oltre la suggestione, le apparenze e le apparenti appartenenze. Gigi Proietti una volta disse: se parlo con uno di destra, mi sento di sinistra, se parlo con uno di sinistra divento subito di destra. Forse è meglio ascoltare, parlare poco e continuare a navigare verso Itaca. Meglio se di bolina. Si impara di più.