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Francesco Rossi
Oggi il Cda Rai ha approvato le nomine dei direttori dei Tg e Lucia Annunziata si è dimessa perché non condivide nulla “dell’operato dell’attuale governo” e in particolare “le modalità dell’intervento sulla Rai”.
Uno spettacolo già visto e replicato ad ogni cambio di maggioranza di governo.
“Lottizzazione”. Tutto nasce da questo termine coniato dallo scrittore Alberto Ronchey in una lettera inviata a Ugo La Malfa. Siamo nel 1968, quindi ben 7 anni prima di quel 14 aprile 1975 giorno in cui il Parlamento approvò la riforma della Rai. Le due vicende, seppur distanti, ed apparentemente scollegate tra loro, rappresentano il vero spartiacque del rapporto tra la politica e la televisione italiana.
Nulla sarà più come prima soprattutto nell’opinione pubblica, fino ad allora poco attenta alle intricate vicende del connubio “tv-politica”. Quando Ronchey decise di far sentire la propria voce la tv di Stato era un affaire solo del Governo, con la riforma del 1975 parecchie cose cambiano. Per garantire maggiore pluralità la patata bollente passa al Parlamento: vengono così costituite la Commissione parlamentare e la Commissione di Vigilanza che opera e “vigila” direttamente da Viale Mazzini. Ne fanno parte componenti di maggioranza e opposizione. Non cambia, però, il maggior azionista che rimane il Ministero del Tesoro con il suo 99,56% delle quote.
Come spesso accade in Italia, le buone intenzioni rimangono nel cassetto dei sogni, anche perché tutte le nomine – dalle più piccole alle più importanti- quali presidente, direttore generale, direttori di rete, direttori di tg ed altro- sono ad uso esclusivo del governo in carica con il Parlamento di fatto esautorato. Con dei distinguo da non sottovalutare: negli anni ’70 in Italia governavano solo due partiti quindi era facile, ed anche più democratico, spartirsi l’allora unico colosso dell’informazione. Anche perché la torta dell’intrattenimento doveva ancora lievitare. Pochi erano i programmi, ancora meno i conduttori- essendo la televisione nata da poco-. Uno solo era il TG (sulla Prima rete), non esistevano i talk show, gli interessi degli italiani erano quasi esclusivamente rivolti ai quiz per cui una TV in mano allo Stato era vista quasi come una prassi naturale.
Nonostante ciò, qualcosa bolle in pentola. Nel 1976 nasce la terza rete (l’attuale Raitre), con una chiara e marcata impronta comunista: con essa arriva anche “Tele Kabul”. E non solo. Proprio dalla terza rete iniziano le prime trasmissione a carattere puramente politico, che vedranno la loro esplosione definitiva a metà degli anni ’90 anche per via della nascita delle tv commerciali di Silvio Berlusconi. Un crescendo rossiniano che è andato di pari passo con la comparsa di partiti e partitini dovuto principalmente al Big Bang causato da tangentopoli.
Ed ecco che la “lottizzazione” di Ronchey torna prepotentemente in auge. La morsa governativa sulla Rai si fa ogni giorno sempre più pressante; la torta ha lievitato in maniera esponenziale e sulla scena politica arrivano centrosinistra e centrodestra circondati da un’infinita quantità di partiti e liste satellite rendendo la partita delle nomine ancora più agguerrita, tanto da essere quasi costretti alla spartizione per rete: Raiuno filogovernativa, Raidue vicina al centrodestra e Raitre, non fosse altro per il suo dna, alla sinistra.
Tutto ciò in barba al volere dei cittadini, nonostante gli stessi siano obbligati a pagare il canone, che tutto è tranne che un abbonamento, con l’aggravante che spesso e volentieri li vede costretti ad assistere a vere e proprie propagande di massa. Soprattutto da quando dal tubo catodico sono spuntati i talk show. Sin da subito si è capito qual era il loro indirizzo: megafoni e portavoce della linea politica del momento o comunque marcatamente di parte. Non più, e non solo, Raitre.
Il fenomeno ben presto si è spostato sulla rete ammiraglia, ovvero Raiuno. La casa di tutti italiani improvvisamente è diventata la dimora di molti ma non più di tutti. Ne ha anche risentito il dibattito con animi sempre più esacerbati, sfociati spesso anche in violenza fisica. Tant’è che viene quasi il sospetto che l’essere passati sotto l’egida parlamentare sia stato un danno per “mamma” Rai.
Si è tentato negli anni di introdurre alcuni strumenti come la par condicio che però va a ledere ed oscurare chi in Parlamento ha poca rappresentanza. Si voleva creare più pluralità, si voleva armonizzare un prodotto e renderlo brillante agli occhi del telespettatore, si è invece avuto l’effetto contrario.
Dalle tribune politiche al tutti contro tutti in stile Grande Fratello. Tanto è vero che spesso si è parlato di una possibile privatizzazione della Rai sganciandola così da ogni incombenza, liberando Montecitorio e le tasche degli italiani, i quali al di là del canone, contribuiscono al “sostentamento” con il 730. Ma è sempre stato un approccio molto timido, mai realmente dettato da una volontà vera e convincente. Non c’è mai stato uno studio di fattibilità, un piano di evacuazione e di dismissione.
Perché la statualità della Rai è inattaccabile? A chi fa comodo avere tutto sotto controllo? A parole a nessuno, tant’è che dai palazzi hanno inventato negli anni un nuovo slogan: “via la politica dalla Rai”, che sembra tanto una delle celebri frasi del Cappellaio Matto. Lo dice la sinistra quando governa la destra e viceversa.
Nei fatti – ad ogni inizio di nuova legislatura- è sempre la stessa solfa con l’assalto alla diligenza che parte un minuto dopo. Un giro di valzer dopo l’altro per riempire poltrone e scrivanie di amici, parenti e giornalisti o conduttori vicini alla causa.