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Nell’estetica dell’approccio bianco alle nuove musiche del ‘900 concetti come integrità, identità e – in misura minore – coerenza artistica, hanno sempre avuto un’importanza centrale. Nei generi di largo consumo si aggiunge “il rispetto dei fan”. Dato che gran parte delle ragioni alla base del successo di un’artista sono integrità artistica e rispetto dei propri fan, questi richiedono al proprio beniamino integrità artistica, coerenza e quindi rispetto nei loro confronti.

Recente vittima illustre di questo meccanismo sociologico è stato Bruce Springsteen, cui molti fan e commentatori non hanno perdonato di non aver annullato il concerto di Ferrara e neanche speso una parola di solidarietà alle vittime dell’alluvione che aveva flagellato il resto della Romagna nei giorni immediatamente antecedenti. Ma non è questo il tema che vogliamo affrontare.

La domanda è: quando un artista – per ragioni anagrafiche, di salute, di ispirazione – non è più in grado di continuare ad offrire contenuti, dischi, concerti di livello o qualità comparabile a quelli che gli hanno conquistato i favori del suo pubblico, ha più rispetto dei propri fan se smette o se continua offrendo prestazioni inadeguate o insufficienti?

Posta in questi termini, amplissimi, la domanda apre a un numero enorme di profili, distinguo, considerazioni, che sarebbe interessante approfondire, ma non ne abbiamo in questa sede lo spazio. Quindi proviamo a circoscrivere uno dei precipitati della questione generale con un esempio concreto.

John Francis Bongiovi Jr., in arte “Jon Bon Jovi”, musicista americano di origini siciliane, è il titolare del marchio multimilionario “Bon Jovi” nonché principale coautore e cantante solista dell’omonima rock band dal successo enorme (oltre 130 milioni di dischi venduti in 40 anni di carriera, più di 2800 concerti eseguiti in 50 paesi davanti a una platea stimata complessivamente in oltre 35 milioni di persone). Anche i (non pochi) detrattori ricorderanno comunque la sua voce acuta e potente intonare ritornelli di grande appeal fin dagli anni ’80.

Ma, da ormai molti anni e con largo anticipo rispetto alla media, Jon ha praticante perso la voce: anche se nessuna diagnosi medica è mai stata resa pubblica, è ampiamente evidente che non riesca più a sostenere non solo i difficili acuti dei vecchi successi, ma anche tonalità decisamente più abbordabili degli ultimi dischi (meno che mediocri, ma questo è un altro problema). Oltre alla ridotta estensione vocale, anche lo stesso timbro si è trasformato in uno sgraziato gracchiare più simile alla caricatura delle streghe cattive dei vecchi cartoni animati che alla voce di un cantante e l’enorme affanno nei concerti dal vivo è palese, non solo nel raggiungere note alte (che anzi, ogni tanto continua a raggiungere), ma per le evidenti difficoltà che alle volte manifesta nel ritrovare la giusta melodia o la giusta tonalità anche in parti apparentemente semplici.

Una certa consapevolezza delle ridotte capacità fonetiche sembra fare – finalmente – capolino dalle composizioni contenute nell’ultimo album (“2020”), che sono evidentemente tagliate su misura per lo stato attuale della voce del Nostro. Nonostante ciò, Bon Jovi non sembra intenzionato a smettere di suonare dal vivo né di escludere dalle scalette dei concerti i vecchi successi che ormai, senza girarci troppo intorno, non riesce più a cantare, offrendo uno spettacolo per lunghi tratti realmente penoso. Fate una ricerca su YouTube, ne avrete innumerevoli prove anche senza investire cifre impegnative in biglietti dei concerti.

Tornando alla domanda originaria, nel nostro esempio questa diventa: Jon Bon Jovi mostra più rispetto per il suo pubblico se continua a cantare i vecchi successi, mostrandosi sinceramente in tutta la propria fallibilità umana, se elimina dalle scalette dei concerti le versioni ormai canoniche dei vecchi successi, eseguendo solo canzoni che oggi riesce ad eseguire in modo adeguato, o se smette del tutto di esibirsi dal vivo?

Insomma, forse si porrebbe una scelta con opzioni tutto sommato limitate: cambiare pelle, accettare lo stato in cui ci si trova qui ed oggi, riconoscere cosa si è ancora in grado di dare e cosa no, e offrire solo questo al proprio pubblico, o a quello che resta decidendo di seguirti?

O trasformare i concerti in un grande karaoke di massa in cui tu accenni la melodia e il pubblico canta il resto mentre tu fai, a 60 anni e oltre, le stesse mossette che facevi a 25 anni (e che erano già ridicole allora, ma questo è un altro discorso)?

Non si tratta di nulla di nuovo: il mondo è pieno di artisti che nel tempo hanno mutato pelle e hanno ritarato la propria carriera, quindi il proprio suono, il proprio stile, forma contenuti e repertorio dei propri concerti in base ai cambiamenti che sentivano in sé stessi. Viene in mente John Mellencamp, che aveva raggiunto il successo negli anni ’80 un po’ sulla scia commerciale e stilistica di Bruce Springsteen e che nel tempo ha virato sempre più verso un folk d’autore con appena qualche punta elettrica, nella testardaggine di essere sé fedele a stesso e di voler offrire al proprio pubblico il meglio di quello che lui sentiva di essere in ogni preciso momento.

Lasciamo stare, poi, l’aspetto commerciale: è ovvio che qualunque cosa fai, finché c’è gente disposta a pagare per vederti, è tutto legittimo. Ma dal punto di vista artistico?

Già, spesso si confondono piani del tutto distinti: soprattutto quello artistico (l’opera d’arte, che sia incisa su un disco che vende milioni di copie e che sia cantata negli stadi, o che sia l’inedito di metalmeccanico suonato solo alla pizzeria sotto casa, non cambia e i parametri di giudizio estetico non possono che essere gli stessi) e quello commerciale (la musica può essere un lavoro ma può anche non esserlo: non tutti quelli che vivono di musica sono artisti e non tutti gli artisti vivono di musica). Ma è chiaro che i Bon Jovi hanno avuto una lunga e fruttuosa carriera musicale, incentrata su composizioni originali, molte anche di un certo pregio (al di là degli inevitabili gusti personali, che sono il terzo piano che spessissimo entra nei discorsi musicali a confondere le idee e inquinare i giudizi), quindi nella scelta tra le strade che ipotizzavamo sopra c’è l’implicazione della possibilità di chiudere la fase propriamente “artistica” del proprio percorso e proseguire sul piano meramente commerciale. Una cosa, infatti, è vendere un concerto per promuovere le ultime canzoni che ho scritto, raccolte in un disco in vendita; tutt’altro è vendere un concerto che è una mera riproposizione delle grandi canzoni del passato, ma senza alcun quid novis, senza un vero contributo artistico.

Perché un’opera d’arte è il dono di un individuo al mondo, che spinge la cultura dell’umanità un passettino più avanti. E per essere arte quel passettino, pur piccolo, la cultura mondiale lo dovrà pur fare…

Ma forse questo è un altro tema…